domenica 22 ottobre 2017

It

2017

Debbo dirlo, non mi è piaciuto. Non mi è piaciuto per niente. Mi riferisco allo stupro l del capolavoro letterario del  Re del brivido, Stephen King, nella trasposizione cinematografica uscita lo scorso settembre in quasi tutto il mondo e il 19 ottobre, come se fossimo un paese di ritardati, in Italia, It.

Ho visto il film due volte, la prima a Sofia, in inglese, sottotitolato in bulgaro e la seconda, proprio in questi giorni. Se prima ero titubante con la versione originale, adducendo al mio inglese non perfetto, la seconda visione, invece di confutare i miei dubbi, lì ha ulteriormente rafforzati.

Il film s’intitola It, ma dell’omonimo romanzo ci sta poco o nulla, a parte il simpaticissimo pagliaccio e i nomi dei personaggi secondari e gli appartenenti al Club dei Perdenti, per il resto, buio totale.

Certo, il film preso a se stante è un film di livello medio, considerato anche il budget per delle produzioni americane, 35 milioni di noccioline, ma è un horror come tanti, né più e ne meno.

Sicuramente ha degli spunti interessanti, la trama è strutturata abbastanza bene, ribadisco, se una persona non ha letto il tomo del Re.

Ma se una persona, metti una persona come me, che nel mio caso il libro se l’è pappato più di una volta, anzi credo d’averlo letto nel corso degli anni, almeno quasi una dozzina, allora no. Il film, a confronto del romanzo, toppa alla grande.

 Sicuramente il regista ha fatto il possibile per trasferire nella sceneggiatura almeno parzialmente l’atmosfera di crescita e di amicizia dei protagonisti, ma poi tutto lì, riuscendo ad abbozzare solo la cosa. A sua discolpa si potrebbe dire che trasferire le quasi cinquecento pagine della prima parte, sarebbe un’impresa titanica per chiunque, soprattutto se lo si vuole concentrare il tutto in due ore e dieci minuti, ma…

La Timeline è stata stravolta, portando la prima parte nel 1988, anziché in quella letteraria del 1957-58, già qui, alla prima visione, ho dovuto andarmi a cercare l’apparato riproduttivo dentro i calzoni. In quanto una era nel calzone destro e l’altra nel sinistro, il butto, invece, mi è rimasto attaccato. E forse, scrivo forse, questo potrebbe fin dall’inizio avermi innalzato le legittime barriere dei pregiudizi, nei confronti del film, ma nutro dei seri dubbi al riguardo.

La psicologia dei personaggi quasi secondari, ad esempio Richie Tozier e Mike Halon, totalmente difformi rispetto al romanzo, tanto è che il povero Mike, fa quasi la parte dello stereotipo afroamericano, figlio adottivo di un macellatore di pecore, mentre invece nel romanzo è lui l’anima storica dei perdenti e non certo Ben Hansom, che nel film passa per un vero sorcio – obeso – di biblioteca. Certo, era un sorcio obeso da biblioteca, ma i suoi interessi non vertevano vesto la storia di Derry, ma verso i romanzi, perché il vero storico del gruppo, che aveva preso dal padre la passione, era Mike Halon.

È inutile dire che, a mio avviso, già il solo spostamento temporale degli eventi, toglie molto fascino al film, lo svuota, in quanto l’approfondimento che fece l’autore nella società semirurale di Derry, portandola avanti di quasi trent’anni, toglie magia, in quanto il tocco di quasi contemporaneità risulta artefatto e forzato, mancando, per colpa di quel fottuto politicamente corretto che appesta il mondo anche della finzione cinematografica, dell’antisemitismo narrato nei confronti di Stan Huris, le battute scherzose nei suoi confronti da parte degli altri perdenti e il razzismo nei confronti dei “negri”, “naturale” e legale nell’America della fine degli anni ’50, così come il linguaggio omofobico, profuso a piene mani dall’autore e messo in bocca agli antagonisti dei perdenti.

Una cosa che mi ha lasciato interdetto è stato il linguaggio volgare dei Perdenti, per carità, nulla contro i volgarismi, anzi,ma nell’opera originale, visto il bigottismo americano dell’epoca, i bambini e non certo adolescenti come nel film, si esprimevano quasi come educande dell’epoca vittoriana, mentre nell’adattamento cinematografico sembravano tanti piccoli scaricatori di porto, sempre il “cazzo in bocca”, metaforicamente parlando, chiaramente.

La scena di Beverly sospesa nell’aria, beh, quella sospensione doveva appartenere ad Audra, la moglie di Ben, nel romanzo. E via discorrendo. Senza contare che la scena dei perdenti che saltano dalla cascata, mi ha fatto ricordare Stand by me – ricordo di un’estate.

Tutti sputano addosso alla miniserie del 1900 con un magistrale Pennywise, interpretato da Tim Curry, ma sebbene la miniserie fosse un classico prodotto anni ’90, con una recitazione indegna perfino per un cane abbandonato per strada, aveva il merito di essere abbastanza fedele al romanzo, certo, con tutti i limiti di budget imposti per le miniserie, ma almeno in linea di massima il romanzo è stato oggetto solo di un tentativo, maldestro, di sodomia, mentre nel film di Muschietti, dal mio modesto punto di vista, non solo la sodomia dell’opera è stata perpetrata più e più volte, ma presumo come per molti amanti del romanzo, è stata dolorosa, essendo stata commessa senza prendere alcun tipo di precauzione, a riguardo le eventuali malattie a diffusione sessuale e peggio ancora, a “secco!”

In mezzo a questo bailamme si possono salvare solo tre personaggi: Pennywise, Bill Skarsgård, Henry Bowers – Nicholas Hamilton, e Beverly Marsh – Sophia Lillis e in minima parte Ben Hanscom – Jeremy Ray. Gli altri, partendo da Bill, per giungere fino a Rickie, Stan ed Eddy, voglio stendere un velo pietoso, banali caricature malfatte e brutte fotocopie dei personaggi del romanzo, completamente senza spessore.

Il Pennywise odierno non può essere paragonato a quello del 1990, scenograficamente quello del 2017, grazie all’aiuto degli effetti speciali, è più orrorifico ma quello di Curry è entrato, proprio per la sua “naturalezza” e a modo suo, “umanità”, nell’immaginario collettivo di più di una generazione, mentre il Pennywise del 2017, sebbene più forte visivamente, difficilmente rimarrà a lungo nell’immaginario collettivo, come il suo predecessore, in quanto avente sì una sua teatralità, ma questa è una teatralità spinta e priva  della “semplicità” che aveva il Pennywise di Curry, passando come una  meteora nell’immaginario collettivo, nel volgere di qualche anno, proprio perché essendo dotato di eccessiva carica orrorifica,  ne risulta svuotato r poco incisivo nel lungo periodo.

Ho trovato stupendo l’Henry Bowers – Nicholas Hamilton di Muschietti, cattivo e bastardo dentro come deve essere cattivo e bastardo. Il personaggio è stato caratterizzato molto bene, senza sfumature od orpelli aggiunti, perché già la presenza stava a dimostrare che era uno dei veri  protagonisti in secondo piano della storia. Il suo essere semplicemente malvagio, lo ha reso umanamente adorabile e anche le se efferate le sue azioni, sotto alcuni punti di vista, potevano non essere condivisibili, in quanto, pur non essendo un appartenente al Club dei perdenti, il vero perdente era lui. E questo lo ha reso amabile.

Beverly Marsh – Sophia Lillis; un solo aggettivo: gnocca!

 E vada a farsi fottere il sessismo e tutto il resto.

La giovane Sophia ha recitato con forte intensità, dimostrando una carica erotica, sensuale e sessuale non indifferente.

Beverly Marsh infatti rappresenta il prototipo di femmina ai primi pruriti sessuali e alle prime mestruazioni. Una vera zoccoletta a cui sta sbocciando l’adolescenza, infoiata per Bill, ma attratta da quel lardoso ciccione di Ben, e l’attrice ha saputo dar vita a tutte le sfaccettature di quel periodo di transizione dall’essere bambine al diventare biologicamente donne, ma ancora psicologicamente immature e per questo prive di un timone e di una direzione definita, ma in continuo divenire.

In conclusione, l’It di Muschietti poteva oggettivamente essere fatto meglio?
 Con il senno del poi, siamo tutti bravi a giudicare il lavoro altrui, ma ad essere oggettivi, vista la complessità del romanzo di King, non poteva fare molto di più, anzi, quello che ha fatto, almeno nel rimaneggiare il testo, è stato anche troppo, visto che ha  quasi totalmente disarticolato e destrutturato l’opera, rimodellandola in una malaforma cinematografica, trasformandola in un cibo in alcune sequenze commestibili e digeribili e moderatamente gustabili, in altri punti, vomitando una sbobba di vomito e bolo, rigurgitando un film che si è allontanato troppo e male, dal magnifico ordito originale.

E questo, in tutta onestà, dispiace!


Marco Bazzato
22.10.2017

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