domenica 9 marzo 2008

Momenti di normalità


Aborto terapeutico 5



Ivano si era spogliato con difficoltà. Il dolore nei testicoli continuava pulsare come un dente cariato. Faticava a muoversi e gemeva bestemmiando divinità presenti e passate senza distinzione alcuna. Dopo esser entrato in doccia, provò ad urinare e effetto sortito fu quello di far uscire un getto d’urina misto a sangue dal tanfo nauseabondo. Imprecò nuovamente. La prossima volta l’avrebbe strozzata, senza pensarci due volte. Nonostante il dolore risucì a lavarsi e dopo aver indossato l’accappatoio, si recò in cucina, dove la moglie lo attendeva con un piatto di pasta fumante.

Gianna nel frattempo, mentre attendeva il marito, preparava la cena, si era lasciata andare ai ricordi, al passato, fluttuando nell’immensa marea nera di liquami tossici, presenti nella mente, sommergendola fino a farla quasi soffocare. Non voleva ricadere nel dolore dell’infanzia, ma quelle immagini erano impresse nella mente e nonostante cercasse di non farsi sovrastare, queste la braccavano come animali inferociti.

Aveva paura, nemmeno Ivano conosceva il suo passato, conosceva la sua storia, era al corrente degli orrori che aveva subito, della sofferenza che aveva costellato l’infanzia e l’adolescenza, fino al girono dell’incontro con l’uomo che l’aveva accettata per quello che era, senza sapere chi era.

Le lacrime scendevano e faticava a trattenerle. Si odiava in quei momenti di solitudine, quando era debole e vulnerabile. Si detestava, e più il dolore interiore aumentava, più il suo bisogno di distruzione accresceva in modo esponenziale.

Non ricordava, o non voleva ricordare, le volte che da giovane aveva tentato il suicidio ingerendo barbiturici o alcol, cercando di schiantarsi anche contro un’auto, ma il più delle volte aveva desistito all’ultimo momento, come se un maledetto attaccamento alla vita, non le consentisse d’essere padrona della sua morte.

Era cresciuta in una famiglia di pastori, emigrati anni prima dal sud italia, trasferitesi al nord nei primi anni sessanta per trovare lavoro nella nascente industria calzaturiere della Riviera del Brenta, ma non conosceva i genitori,lo aveva scoperto per caso, origliando quando la sua presunta madre, si lamentava con marito, che lei non faceva nulla in casa.

Quella sera la piccola pianse. Si sentiva tradita, derubata, stuprata mentalmente e fisicamente della sua storia. Avrebbe voluto uccidersi, sparire, fuggire, andare lontano, emigrare o vivere raminga chiedendo la carità, diventando una zingara, una senza casa, vivendo in baracche fatiscenti, cibandosi dei rifiuti altrui, pescati dentro qualche cassonetto, ma aveva paura dell’ignoto,del nuovo, dello scosciato mondo fuori dalle quattro di casa, scuola e chiesa, e le amiche d’infanzia con cui, fino a quel momento aveva confidato ogni segreto, ogni speranza, ma che da quel giorno, al pari di quegli estranei che l’avevano allevata, non sarebbero state altro che un nulla, perché aveva iniziato a capire il motivo di quei baci notturni,delle carezze particolari, delle attenzioni maniacali che quel padre le riservava fin dalla più tenera età, ma che non avrebbe più permesso che commettesse.

La donna tirò su col naso, provando a scacciare quel senso di dolore, come una ferita schiusa e cosparsa d’acido, le provocava ogni qual volta, quei sentimenti affioravano. Spesso si chiedeva tra se se era pazza, ma sapeva benissimo che nessun pazzo è cosciente d’esserlo, quindi era sana, ma se lo era, perché stava male?

Tirò su col naso, poi dopo esseri raschiata la gola, espettorò violentemente un grumo di catarro linaccioso e verdognolo. Terminò d’apparecchiare la tavola e mise il cibo sul piatto. Per fortuna, quella sera, Giuda non era a casa. Era stato accompagnato il giorno precedente dal fratello di Ivano, Ninetto lo nano, un bestione di quasi due metri, dal peso di oltre cento cinquanta chili, che come il marito, bevevo come una spugna, quasi senza sosta, aveva le braccia tatuate all’inverosimile per nascondere il decennale utilizzo di eroina che si iniettava, moderatamente, ogni tre giorni.

«È pronta la cena, figlia di cento padri che non sei altro?» la insultò amorevolmente il marito, mettendo il piede in cucina, con l’accappatoio mezzo slacciato davanti e la panza che faceva bella mostra di se, compreso il coso che funzionava solo nei giorni d’astinenza alcolica.

«Si, idiota!»

«Bada a te…Dammi da mangiare, non ho né tempo e ne voglia di spaccarti un'altra volta i denti!» grugnì, lasciandosi andare alla solita flautolenza d’antipasto che sapeva d’alcol e intestino semiputrefatto. La cucina, dopo l’emissione rumorosa di gas, divenne pregna degli effetti nauseabondi quanto espulso. Per fortuna, non gli si era rilassato lo sfintere, come spesso gli accadeva sempre più frequentemente, soprattutto durante le ore di lavoro.

«Come ti senti dopo quello che hai fatto oggi?» Le domandò quasi con dolcezza, dopo aver annusato l’aria e approvato, come un sommelier, che gusta un vino eccezionalmente pregiato, pronto per farlo servire al miglior cliente di un ristorante d’alto bordo.

«Come mi dovrei sentire, secondo te, scienziato delle mie tube! Svuotata, come se mi avessero fatto un clistere nel canale sbagliato, come se mi fossero saltati sulla pancia, comunque meglio così, una bocca in meno da sfamare. Ti ricordi quanto c’è costato Giuda, piccola bastardo sanguisuga, che non è altro».

«Certo. Ero io che pagavo per pannolini, latte in polvere e altre amenità. Te lo dicevo che potevamo svezzarlo a grappa e mettendoli sotto il culo un po’ po’ di foglie, e avvolgerlo su stracci» disse tutto d’un fiato, mentre si rollava, con la forchetta gli spaghetti, continuando nel contempo ad annusare l’aria che stava perdendo la sua veneficità.

«Lo ricordo, lo ricordo. Ricordo anche che volevamo venderlo agli zingari, lo avrebbero pagato bene. Ci siamo fermati, perché sembrava che lo avrebbero rivenduto a pezzi, tagliuzzandolo senza utilizzare ferri sterili! Ti rendi conto che fine ha fatto l’igiene sanitaria. I suoi organi avrebbero potuto diventare inutilizzabili, prima del tempo, e se la sarebbero presa con, perché gli abbiamo venduto un bambino difettato. Cazzo Mica aveva il certificato di garanzia, attaccato al cordone ombelicale, quando me l’hanno fatto vedere».

«Basta con queste cose vecchie. Per fortuna Giuda è al sicuro da mio fratello» sogghigno Ivano.

«Gia, al sicuro, come l’ultima volta che voleva fargli fsniffare una pista di coca. Per fortuna l’abbiamo fermato in tempo, e si è accontentato di fargli bere solo due litri di birra, anche se poi, quel bambino idiota, l’ha vomitata. Si vede che non lavora come te e non sa cosa significa sudore della fronte».

«Hai ragione, amore. Non fanno più i figli come una volta. Forse siamo troppo teneri con lui. Dovremmo punirlo più spesso, anche senza motivo, cosa ne pensi?

«Certo, tutto quello che vuoi. Si tratta di nostro figlio, non di un bastardino raccattato per strada!» Sentenziò la moglie, contenta che il suo uomo, dopo la martellata ai testicoli, si fosse rabbonito.

Continua…

Marco Bazzato

08.03.2008

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