giovedì 6 marzo 2008

Aborto terapeutico 3



Precedente…



La tv continuava a trasmettere, ma Gianna era persa nel suo mondo fatto di sonno, ombre, silenzio e figure oscure. Si sentiva toccata, posseduta, accarezzata e frustata come una danza sado-maso da cui avrebbe voluto allontanarsi, ma dall’altra se ne sentiva attratta come una ninfomane in cerca di emozioni nuove. Era in dentro una cacofonia di suoni e colori, urla strazianti e gemiti orgasmici, fusi e confusiddei ricordi lontani che ogni tanto emergevano dal buio del passato. Tremava, ma le piaceva. La mano sinistra, come colpire un ipotetico nemico inesistente, si agitava nell’aria, come un bambino a cui ha preso il volo il palloncino e piange, perché i genitori ,poveri in canna, non possono permettersene altri.

In lei tutto si muoveva, come se nel grembo avesse ancora quella creatura da poco estratta, come se quel grumo di cellule, entrato nel suo ventre pochi mesi prima, trasformatosi giorno per giorno, la chiamasse da un mondo lontano, gridando di dolore e rabbia malcelata.

Nel sonno piangeva. Piangeva come una bambina smarrita. Come un fanciulla persa in bosco tenebroso. Piangeva lacrime salate che le bagnavano il volto, rendendola fragile e dura come un cristallo brillante di luce nera.

Avrebbe voluto svegliarsi, ma era come se fosse attratta verso un pozzo senza fondo, dove le voci di amici e parenti perduti, da tempo, sotto la terra, sepolti, la chiamavano. Davanti a lei, un nulla colorato di strane figure inesistenti, figure angelicamente demoniache che giocavano a possederla e farla loro come tanti amanti che volevano solazzarsi con lei.

Inconsciamente divaricò le gambe, come per prepararsi ad un coito, vivente solo nei pensieri. Avrebbe voluto essere accarezzata, toccata, presa e posseduta. Ma nulla di tutto ciò accadde. Sorrise piangendo, pianse sorridendo come quando da piccola il padre prima la prendeva a cavalcioni e poi, di notte, silenziosamente entrava nella sua stanza, accarezzandola, sfiorandola, toccandola con paterno amore maschile, per poi scoppiare in un silenzioso pianto.

Richiuse le gambe, come se avesse avuto una contrazione orgasmica e il mondo in lei cambiò nuovamente. Vide lo scorrere del tempo, a ritroso dal presente al passato, e in avanti dal presente al futuro. Si vide vecchia, con le ossa malate e i capelli canuti. Era sorda, del mondo esterno percepiva solo il silenzio, ma dal mondo interno udiva distintamente ogni singolo grido, ansimo e sospiro. Le immagini del tempo scorrevano come un vecchio film sgranato dei fratelli Marx, sentendosi prigioniera del suo stesso incubo che sembrava voler farle vedere, sempre le medesime immagini.

Era prigioniera del tempo perduto, prigioniera dei ricordi, che come un ammaestratore sadico inducevano a passare da un tempo all’altro, da emozioni nefaste a ricordi eccelsi, facendole battere il cuore come se fosse sotto le bacchette d’un batterista metal schizzato.

Era stanca di quel ristoratore sonno mortale, avrebbe voluto alzarsi, svegliarsi, fuggire via, lontano da tutto e da tutti, nascondendo il capo sotto una roccia appuntita, assaggiando con le labbra arse dal sole, il sapore della terra intrisa di fango e vermi. Si sarebbe lasciata sodomizzare da una decina di maschi affamati di sesso, o avrebbe divorato anche la carne del figlio strappato alla vita, pur d’abbandonare quella tortura mentale, ma era prigioniera del tempo perduto.

«Gianna, sei sveglia?» domandò il marito, dopo essere rientrato senza far rumore.

La donna udì come un eco morente la voce del marito. Sembrava provenire da un mondo distante, che però rappresentava l’unico appiglio alla vita, il baluardo che l’avrebbe strappata dal mondo dei morti. Cercò di svegliarsi, ma la mente non rispose. Cercò di scuotersi, ma era come se avesse le membra piombate, gli arti pesanti, assenti o amputati. Si sentiva un tronco arso da un fuoco perenne che uccideva sostanze tossiche e vitali.

«Gianna, sei sveglia?» ripete Ivano col tono di voce che intimava una risposta.
Lentamente il mondo riprese colore, i sogni e gli incubi iniziarono a sparire, a scomporsi in immagini nebulose, come risucchiate dall’interno della sua mente da una cappa aspirante d’infinita potenza.

Provò a sollevarsi dalla poltrona puntando con forza i piedi a terra, ma ebbe la sensazione che questi scivolassero dentro una fossa biologica, colma d’escrementi e liquidi. Voleva svegliarsi. Doveva svegliarsi altrimenti la lite che ne sarebbe succeduta, sarebbe stata per l’ennesima volta una di quelle senza fine che come spesso accadeva, induceva i vicini a chiamare le forze dell’ordine.

Ivano nel frattempo si era avvicinato alla moglie. Vide il volto pallido e sudato. Aveva gli occhi incassati nelle orbite, come se qualcuno cercasse dall’interno di tirare i nervi oculari per farglieli precipitare nella scatola cranica, ma non si spaventò. Era una sua naturale condizione quando il sonno era funestato da incubi. Non era più il caso di perdere tempo – pensò tra se – con parole inutili. La prese la per i capelli, dopo aver sospirato, per la stanchezza dopo otto ore in manovia – la sollevò violentemente dal divano. La donna, finalmente riportata alla coscienza, gridò con quanto fiato aveva in gola. Tutto in lei era svanito improvvisamente. La prima cosa che vide quando aprì gli occhi, fu lo sguardo furioso del marito. L’uomo aveva le pupille come due capocchie di spillo, e Gianna capì che egli oltre ad aver lavorato, aveva durante le pause e nel tragitto che conduceva a casa, banchettato, bevendo a stomaco vuoto, la sua solita mezza bottiglia di grappa.

«Mi fai male, brutto stronzo!» gridò cercando d’afferragli il braccio per attutire la tensione sui capelli.
«Ho fame, brutta puttana! E tu te ne stai qui con le gambe aperte a dormire! Corri in cucina, vacca!» le intimò alitandole sul volto. La donna sentiti gli effluvi dell’alcol nell’alito del marito annuì con gli occhi. Sapeva che in quel momento, “La resistenza – come dicono i Borg – è inutile”. Ivano, la donna lo sapeva da anni, era come un cane. Quando era affamato, bevuto e fumato, era meglio tenersi a debita distanza. Lo amava quando si comportava così, ma come un domatore che tiene a bada una tigre, anche lei, per tenere buona la bestia che aveva sposato, doveva prestare estrema attenzione.

L’uomo mollò per un breve istante la presa sui suoi capelli e Gianna ne approfittò per divincolarsi e correre in cucina. Li sarebbe stata nel suo territorio e avrebbe comandato lei.


Continua…


Marco Bazzato

06.03.2008

http://marco-bazzato.blogspot.com/

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