mercoledì 5 marzo 2008

Aborto terapeutico 2



Gianna era tornata a casa e aveva una fame, che avrebbe mangiato volentieri un bambino. Si sentiva svuotata fisicamente e psicologicamente, sturata come un lavandino otturato, decompressa, come un pneumatico tubeless forato. Era tutta un fremito, ma non riusciva a capire se questo fosse dovuto a quanto aveva appena uteramente evacuato, oppure si sentisse bagnata tra le cosce perché la mente continuava ad andare agli occhi azzurro-grigi del ginecologo. Lo stomaco brontolava, ma non voleva mangiare da sola. Avrebbe atteso il marito come faceva da anni, tutti i santi giorni.

In mano teneva ancora il sacchettino di nylon con i resti dell’infanticidio appena commesso il ginecologo su certificazione dello psicologo. Aveva promesso di darli a Caino, il loro rottweiler, il piccolo cucciolo perennemente affamato che era costato al marito, una serie di multe per incuria. Molte volte infatti, Caino, come spinto da un irrefrenabile istinto omicida, fuggiva, tornando a volte, anche dopo alcuni giorni. Lei ed Ivano, non sapevano dove il cane andasse e francamente non gliene importava poi molto. Più volte, soprattutto alla sera, dopo aver scopato come due ricci impazziti, anche per ore, si abbandonavano a sogni e fantasie, non tanto perverse, ma solamente leggermente nere, discutevano di quanto bello sarebbe stato, se il cuccilo sanguinario, fosse tornato con tra le fauci una testa, un arto, un occhio strappato, non importa se di umano o animale, tanto per loro era la stessa identica cosa. Chiacchieravano e si eccitavano, si eccitavano e copulavano per tornare a parlane nuovamente. Sapevano d’essere come due dischi rotti, come due vetture con le fasce elastiche, e col cielo della camera di scoppio, usurate. Ma a loro non importava, andava bene così, per loro era il resto del mondo ad essere impazzito, fuori di zucca, consumato dallo stess e da un eccesso di finto buonismo imperante, che come un carcinoma maligno o un virus emorragico diffuso nelle menti di tutti i loro conoscenti, e non solo.

Li vedevano quei grulli, citrulli dalle fave morte, che non sapevano apprezzare la bellezza dell’oscurità, la sonora musicalità d’una lite furibonda, il piacere di prendersi a male parole, strapparsi i capelli, graffiarsi reciprocamente fino a scarnificarsi la pelle, sentire come il cuore impazzito batteva famelico, affamato di un’aria che non sapeva più trovare, che si stava consumando lentamente, come una batteria ricaricabile, che sta agonizzando lentamente.

Da tempo, lei e il marito, si sentivano come due tossici del dolore, due drogati dalla sofferenza, due narcomani che come vampiri assetati traevano giovamento e godimento delle disgrazie altrui. Moriva un vicino di casa? Si festeggiava! Crepava un parente di sangue o acquisito? Si danzava, nei giorni di festa, fino a che le forze non venivano meno. Era il loro modo di vivere, il loro modo d’amarsi prigionieri simbionti della loro quasi sadica solitudine.

L’unica gioia della loro vita era il figlio,Giuda. In realtà si chiamava Samuele. Ma fin da piccino era stato educato a non essere educato a mentire, barare, ad inventarsi nuove bugie per costruirsi una corazza effimera contro i mali del mondo. Giuda era il soprannome messo dal padre quando Samuele tornò a casa da scuola, quasi fiero di quanto compiuto, con una nota sul quaderno. Il padre sorrise e con la stessa velocità gli mollò un manrovescio sul viso, il piccolo cadde a terra, perdendo conoscenza per alcuni minuti. La madre, richiamata dal tonfo, simile a quello d’un pupazzo o d’un cadavere che cade, vide il marito che stava per calciarlo o al capo del figlio, ma riuscì a dissuaderlo mdal patriarcale gesto d’affetto correttivo, facendoli notare, che non ci sarebbe stato un piacere se lo avesse colpito mentre era a terra svenuto.

Venne strappata dai ricordi da un improvviso brontolio di pancia. Aveva fame. Si sentiva affamata come una cagna che ha appena partorito dei cuccioli nati morti, e sentiva l’istinto naturale di cibarsi della loro placenta. Sorrise. Aprì il frigo e v’introdusse il sacchetto col rifiuto carnale ivi contenuto. Voleva mangiare, ma si trattenne. Sapeva d’essere soprappeso, ma non poteva o non voleva far nulla per migliorarsi, decise dopo essersi annusata un’ascella d’andare a farsi una doccia. Effettivamente puzzava come una capra morta, lasciata decomporre sotto il sole d’agosto. Era forse l’effetto dell’anestesia, del dolore, della paura e della rabbia che la consumava a ridurla in quello stato. Si diresse in bagno e dopo essersi spogliata, evitando accuratamente di guardarsi allo specchio, aprì l’acqua e ed entrò nel box, lasciando che il vapore appannasse il plexiglass, si insaponò il corpo, iniziando dal seno opulento, poi il ventre, le cosce, i glutei, e per ultimo si lavò i capelli da anni ingrigiti.

Si sentiva stranamente eccitata, era come se nel ventre avesse un richiamo primordiale alla sessualità adolescenziale. Avrebbe voluto sfiorarsi, toccarsi, lasciarsi andare al piacere solitario fino a quando le gambe non avessero ceduto, ma si trattenne. Non era né il momento, né l’ora. Avrebbe atteso. Uscì rapidamente dalla doccia, ma dopo essersi asciugata, si sentì nuovamente bagnata sotto, ma lasciò perdere. Si rivestì con i soliti pantaloni da ginnastica e col maglione sformato, indossando solo la biancheria intima, ma non il reggiseno, le piaceva sentirsi le mammelle sballottare, come se fosse una vacca in attesa d’essere munta e dopo essersi accomodata in salotto, accese la tv, ma pochi minuti dopo chiuse gli occhi, addormentandosi d’un sonno profondo, pieno di sogni, che velocemente si trasformarono in immagnifici incubi neri.
Continua…


Marco Bazzato
05.03.2008
http://marco-bazzato.blogspot.com/

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