sabato 27 gennaio 2007

Shoah: Memoria violentata

Mattia era tornato a casa felice, finalmente sarebbe andato in gita scolastica. Ancora una settimana d’attesa e il grande giorno sarebbe arrivato. C’era però uno scoglio da superare: l’autorizzazione dei genitori.
«Mamma» disse il bambino dopo che ebbe terminato i compiti «C’è la gita scolastica tra una settimana, e mi dovete firmare l’autorizzazione».
La donna prese il foglio che li veniva posto da figlio, e dopo una rapida letta rispose «Mi dispiace Mattia, ma tu non andrai in gita scolastica alla Risiera di San Sabba»
«Perché?» quasi piagnucolò il piccolo pensando alla giornata di festa che avrebbe potuto fare con i compagni di scuola.
«Perché è un posto pieno di cose brutte, perché ti faranno vedere cose che alla tua età non dovresti né vedere, né sentire, e nemmeno conoscere».
Il bambino capì a cosa alludeva la madre, ma non era colpa sua se la gita faceva parte del programma scolastico sullo studio della seconda guerra mondiale. «Ma mamma, sono tre settimane che a scuola la maestra ci parla di questa gita e sull’importanza storica della Risiera».
«Ne ho già parlato con tuo padre, e lui è d’accordo con me. Non andrai in quel posto mostruoso».
Mattia squadrò la madre, e le chiese «Tu ci sei stata, vero?»
«Si, e anche tuo padre, per questo non vogliamo che tu ci vada. Sia io sia lui, sappiamo bene come certe immagini non si cancellino dalla mente, specie nei bambini della tua età. Avevamo anche noi dieci anni quando abbiamo fatto la stessa gita scolastica. Io ho avuto gli incubi per quasi un mese, non riuscivo a togliermi dalla testa quell’orrore» rispose la donna, ricordando le notti che si era svegliata urlando, madida di sudore e sua madre che accorreva prima preoccupata e poi arrabbiata con se stessa e con la maestra per quel viaggio maledetto dentro l’incubo.
Mattia tacque. Sapeva che non poteva averla vinta, e si ritirò nella sua cameretta a giocare con il computer.

La gita era fu un successo, tutti gli scolari tornarono a scuola il giorno seguente con addosso i brividi per quel viaggio, per quella giornata di svago fuori dalle grigie mura della scuola. L’unico che non poteva gioire era Mattia. Ascoltava i commenti dei compagni in silenzio e in disparte. Per colpa della madre si sentiva escluso,pensava tra se, faticando a nascondere l’amarezza.
«Seduti, bambini!» ordinò la vecchia zitella, fissando da dietro le spesse lenti da miope. «Oggi farete un tema sulla gita scolastica, voglio che descriviate le vostre emozioni, e cosa vi è rimasto più impresso nella mente di quello che avete visto» gracidò.
Mattia alzò timidamente la mano, cercando d’attirare l’attenzione dell’insegnante. «… Io cosa faccio?» chiese timidamente il bambino.
La maestra mise a fuoco con difficoltà quel piccolo viso, poi appena capì chi aveva parlato, con un moto di disgusto urlò «Tu…., piccolo antisemita ti prendi un insufficienza». Mattia voleva sparire sotto il banco. Sentiva le guance arrossate per la vergogna per le terribili parole dette dalla maestra.
«Portami il quaderno, voglio scrivere ai tuoi genitori. Devono sapere che non possono comportarsi così. Non hanno avuto rispetto né per i morti della Shoah e nemmeno per la scuola. Muoviti, dammi il quaderno, non ho tutta la giornata da perdere» gli intimò allungando il braccio sopra la cattedra. Mattia si alzò dal banco, consegnò il quaderno e poi dopo che la maestra ebbe scritto, tornò al suo posto scoppiando a piangere.

Al ritorno a casa Mattia gettò sul tavolo della cucina il quaderno. La madre, lo prese e lo sfogliò arrivando rapidamente all’ultima pagina, dove con la penna rossa era vergata con caratteri rabbiosi la nota dell’insegnante. La lesse e chiuse il quaderno con rabbia. “Domani mi sentirà, eccome se mi sentirà!”si disse a se stessa.
Mattia il giorno seguente fu accompagnato a scuola dalla madre. La donna aveva chiesto un giorno di permesso dal lavoro per sistemare la faccenda del figlio. Accompagnò il bambino in classe e attese l’arrivo della strega.
L’insegnante appena la vide raddrizzò la schiena cercando di darsi contegno. La madre di Mattia si parò davanti alla maestra mostrando il quaderno del figlio. «Cosa significa tutto questo?» domandò cercando di controllare il tono della voce.
«Significa che suo figlio è educato da lei a sentimenti antisemiti. Negandole il permesso alla gita, ha voluto insegnare a suo figlio la negazione degli orrori dell’Olocausto» rispose l’arpia, felice dell’affermazione.
«Voglio parlare con la direttrice e lo psicologo scolastico. Io ho il diritto di proteggere mio figlio da insegnamenti che considero destrutturanti per la sua psiche. E quello di portare dei minori a visitare Campi di Concentramento, farli vedere cadaveri bruciati e corpi scheletrici è pura violenza psicologica nei loro confronti. È come se assistessero in diretta ad uno stupro o venissero violentati.
«Ma cosa sta dicendo…»
«Senta signora, a me non risulta che lei abbia figli, quindi non può capire quello che subiscono davanti a tutto questo. Se fosse madre, credo che potrebbe capire, ma visto che non lo è, lei non ha nessun diritto nel venirmi a dire quello che è giusto o sbagliato per mio figlio».
La maestra fece un sorriso sinistro, squadrò la donna come se fosse un insetto ignorante da schiacciare con la sua vecchia scarpa. «Faccio l’insegnante da ventanni» iniziò, «e non permetto a nessuno che venga a mettere in dubbio quello che sono i miei metodi educativi, per di più io seguo le regole del Ministero della Pubblica Istruzione» disse facendo una pausa per riprendere fiato, e proseguì «Suo figlio ha fatto un assenza ingiustificata, e come educatrice lo ritengo un affronto anche al mio lavoro e alla mia professionalità, oltre che alla memoria storica e al dovere che abbiamo di tramandarla».
La mamma di Mattia sospirò. Aveva capito fin da subito d’essere davanti ad una mera esecutrice, ad una persona che ligia alle regole imposte che non si sarebbe spostata di un centimetro dalle posizioni ufficiali, nascondendosi come faceva con le lenti spesse degli occhiali, dietro di esse. «La cosa non finisce qui. Forse ci rivedremo in tribunale. Citerò per danni lei e la scuola, e questa nota è la prova dell’accanimento ideologico nei confronti di mio figlio, e della mia libertà di madre di scegliere quello che è meglio per lui».
«Faccia pure, signora, faccia pure, ma dubito che nessun giudice le darà ragione. Lei non capisce che si sta mettendo contro la storia e la politica, e nessun dipendente dello Stato sano di mente che tiene alla sua carriera condannerà né me, né la scuola perché ha fatto il suo dovere».
«Vedremo» rispose la madre di Mattia, e senza salutare l’insegnante, si voltò e si diresse verso l’uscita del plesso scolastico.

Erano passati tre mesi dal giorno dello scontro, e Anna con il sostegno del marito aveva contattato altri genitori degli alunni che si erano recati alla gita scolastica alla Risiera di San Sabba. Sulle prime furono restii a parlare, ma poi alcuni si erano accorti dei comportamenti strani dei figli, dei loro incubi notturni, in qualche bambino si erano manifestati casi d’enuresi notturna che avevano fatto preoccupare i genitori.
Quattro coppie avevano portato i loro figli dallo psicologo infantile, dove i bambini avevano disegnato su fogli i loro incubi, le immagini che vedevano nella mente e quelle figure urlanti avvolte dalle fiamme che piangevano per il dolore.
Gli psicologi cercarono di ignorare i segnali che i piccoli pazienti inviavano tramite i loro disegni, ma non poterono mantenere a lungo le loro posizioni, era chiaro che i piccoli soffrivano della Sindrome di Stress Post Traumatico, dovute a quanto avevano visto durante la gita scolastica, in quanto erano stati esclusi altri fattori destabilizzanti all’interno della vita quotidiana dei bambini.

«Abbiamo le diagnosi» disse uno dei genitori rimasti. In tanti si erano ritirati dal gruppo, spinti dalle pressioni subite, anche se sottovoce e solo a se stessi ammettevano che gli scompensi emotivi dei figli, nonostante fossero passati mesi dalla gita scolastica, non erano del tutto spariti, ogni tanto si riaffacciavano.
Che facciamo ora?» domandò uno dei genitori.
«Andiamo avanti» fu la secca risposta di Anna, «le diagnosi parlano chiaro, voglio vedere fino a che punto la politica si disinteressa dei problemi e dei traumi che queste visite didattiche creano nei bambini» concluse, iniziando però a sentire che il coraggio le stava venendo meno.

Arrivò il giorno dell’udienza preliminare, la coppia era spaventata ed intimorita per l’enorme pressione mediatica che si era creata attorno alla vicenda. I maggiori quotidiani nazionali avevano scritto lunghissimi corsivi per stigmatizzare il comportamento dei due genitori, alcuni si erano spinti a scrivere che probabilmente i genitori che avevano intentato la causa rischiavano di veder allontanati i figli dalle famiglie, perdendo addirittura la patria e potestà.
«La cosa c’è sfuggita di mano» disse il marito ad Anna.
«Hai ragione» rispose lei sottovoce, mentre una miriade di flash e microfoni danzavano a pochi centimetri dai loro volti. «Io però non voglio arrendermi, ma non voglio nemmeno che rischiamo di perdere nostro figlio, viste le premesse sfavorevoli. Sai, credendo di fargli del bene, mi sto rendendo conto che sta soffrendo, forse più di quanto avrebbe sofferto in quella maledetta gita scolastica».
«Già, e troveranno il modo di addossare a noi la colpa di quello che abbiamo fatto nell’intento di proteggerlo» rispose il marito stringendole la mano, cercando di superare la selva dei giornalisti che sembravano spuntati come cavallette.
«Siamo in una situazione senza via d’uscita. Questa è la vittoria della politica sul diritto del fanciullo» concluse la donna, incamminandosi verso l’aula del tribunale, e cercando di trattenere le lacrime, si mossero verso il loro destino.

Il processo giunse al termine dopo quasi un anno, e i genitori di Mattia erano spaventanti per la lettura del verdetto.
Il giudice fece il suo ingresso nell’aula, squadrò il pubblico presente, si sistemò gli occhiali che impertinenti cadevano spesso sulla punta del naso e iniziò a leggere. La lettura durò quasi un’ora. I genitori furono condannati ad un anno di reclusione con i benefici di legge, con la motivazione che si erano opposti ai programmi didattici della scuola, dello Stato, privando il figlio del diritto all’istruzione, negandogli la conoscenza della storia, generata dalla negazione dei genitori dei crimini e contro la memoria della Shoah.
La sentenza stabilì che le diagnosi degli psicologi non erano da ritenersi dovute alla visita stessa, ma dall’orrore che i giovani avevano avuto dalla presa di coscienza di quella realtà tragica che fu l’Olocausto, e il fatto che si fossero impresse così profondamente nella mente dei bambini doveva essere letto, non come una Sindrome Post Traumatica, ma come il giusto effetto che l’orrore deve suscitare davanti alle atrocità commesse dal nazismo, e tutti i bambini hanno il dovere di vedersi incidere nella coscienza quell’orrore disumano, perché esso va oltre al dolore stesso, e le eventuali conseguenze, impossibili da provare, nei piccoli sarebbero comunque da ritenersi irrilevanti rispetto al male assoluto.

N.d.a: questa è un opera di fantasia, qualsiasi riferimento a fatti reali è puramente casuale.

Marco Bazzato
27.01.2007
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mercoledì 24 gennaio 2007

Bruno Zanin: "Nessuno dovrà saperlo”


Bruno Zanin
“Nessuno dovrà saperlo”
Tulio Pironti editore
13 euro

“Nessuno dovrà saperlo” è la prima prova letteraria dell’attore simbolo di Amarcord del grande regista Federico Fellini, e come un novello esploratore, come nel Marco Polo, induce ad un viaggio, al viaggio per eccellenza: il viaggio della memoria nella memoria. Zanin lo fa con delicatezza rude ma tenera tipica della terra veneta che gli ha dato i natali, e attraverso Alessandro Maniero, narra e si narra. Narra di quell’Italia che stava vivendo il miracolo economico, di quella parte del Veneto che a tuttora continua ad essere legata alle tradizioni contadine, a quell’arcaismo attuale, covante sotto la cenere come un fuoco che può essere apparentemente spento, ma come le bronse può essere riacceso da un semplice tocco di vento. Lo scrittore alita su quelle bronse, ravvivando il fuoco della memoria, rimestando nella mente immagini, profumi e negli aromi di un’epoca che ai molti può apparire solo un’immaginazione fantastica, ma è realmente avvenuta, è passata, ma è rimasta impressa nell’autore come una pellicola fotografica dimenticata per anni in fondo al cassetto, finché Bruno decide di riaprirlo con maestria e semplicità, osservando quelle immagini dimenticate, come avrebbe fatto il grande Fellini mentre impressionava la pellicola, lo fa attraverso l’oculare delle parole che si trasformano in immagini, sensazioni e aromi che si impressionano nella memoria senza violentarla, si imprimono però come un’intrusione nelle viscere bambine di Alessandro, con la violenza terribile e devastante del silenzio che rimane taciuto per decenni, ma alla fine esplode.
Bruno Zanin esplode senza deflagrare, fotografa senza abbagliare, dando alle parole semplicità senza fronzoli e orpelli, perché “nessuno dovrà saperlo”.
Il romanzo è un urlo silenzioso, un grido lanciato oltre i campi di Sandon, Vigonovo, Campolongo Maggiore, quei campi ora cementificati, rimossi dalla memoria collettiva, quelle campagne tramutatesi in fabbriche d’uomini che hanno abbandonato la terra, l’agricoltura, l’allevamento per diventare operai, artigiani, piccoli e grandi industriali spaventati dai ricordi della miseria, della povertà della fame, che non hanno perso, nonostante l’immagine firmata, la callosità spigolosa, a tratti dura ma forte patrimonio della zona, dove anche l’autore, al pari di tanti suoi concittadini è partito, ha viaggiato, ha conosciuto il mondo e l’ha toccato con mano,con il cuore, scalando vette, sprofondando in abissi, per poi tornare a casa, nella casa dei ricordi del focolare, della memoria della sofferenza del dolore, dove, dietro l’angolo lindo sono rimaste nascoste segrete fatti che non devono essere narrati. Troppi vivi ricordano, troppe memorie ancora non sono annebbiate dalla senilità degli anni preferiscono fingere d’aver dimenticato, nascondendo sotto la cenere del tempo puzzo e sporcizia, ma Bruno Zanin in “nessuno dovrà saperlo” racconta senza giudicare, scrive senza puntare l’indice, narra e si narra senza vergogna, squarciando il velo dell’ipocrisia contadina del tenere i balconi chiusi, al buio, nell’oscurità. Zanin non può più sopportare quel silenzio, e come Gavino Ledda in Padre Padrone, apre cuore e mente alla tenerezza dolorosa dei frammenti di storia, al profumo di stalla, di vacca, di polenta e castagne, apre agli aromi di pesce di fiume e di mare cucinati in una bettola fumosa, apre a quello che il Veneto era.
“Nessuno dovrà saperlo” è un tocco di poesia rurale, e come uno svolazzare di gabbiani sulla laguna veneta viaggia oltre la soglia dell’orizzonte apparente, oltre quella curva del tempo che ritorna e si affaccia in forme apparentemente diverse nel vissuto dell’uomo, dove Bruno Zanin, che conosce l’uomo, la vita, la sofferenza, il peso della guerra, le luci della ribalta, il frastuono delle bombe, l’umanità degli ultimi conduce romanzo verso quella nobiltà fatta si silenzio, accettazione, combattimento contro le avversità della vita, fatta di conquiste e fallimenti compiuti dall’uomo.
“Nessuno dovrà saperlo” è una storia narrata per uscire dal passato, scritta per entrare nel presente, raccontata per testimoniare, per il piacere sofferente di riscoprirsi, per ricrearsi, e forse per dimenticare, e come Marco Polo, per ripartire.

Marco Bazzato
24.01.2007
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Liberalizzazione dei carburanti

In Italia da decenni si discute delle liberalizzazione della rete dei carburanti, aprendo impianti anche nei centri commerciali, eliminando i piccoli chioschi, o punti vendita con erogati considerati minimi. La volontà del governo è quella di favorire la falsa idea della concorrenza tra gestori, quando è accertato da una sentenza del 8 giugno 2000 che le maggiori compagnie petrolifere italiane avevano formato un cartello[1], e in questi giorni la storia si ripete, partendo nuovamente da zero con la nuova indagine avviata dall’antitrust che ha accusato nove compagnie petrolifere d’aver dato vita ad un cartello sui prezzi consigliati ai gestori[2]
Il consumatore non è un idiota che non si accorge della realtà. Basta che getti lo sguardo sui pannelli espositori dei prezzi per rendersi conto che a parole tutto dovrebbe cambiare, ma nei fatti tutto rimane uguale.
Si può concordare con il governo che ci sia u un sistema distributivo che perde benzina come un’autocisterna bucata, che a differenza degli altri paesi europei, in Italia gli orari sono regolamentati, mentre all’estero sono liberi, con orari d’apertura di 24 ore, impossibile nel Bel Paese, vista la grande quantità di piccoli punti vendita, spesso a gestione familiare.
Con la presunta liberalizzazione si vorrebbe far passare l’idea che ci sarebbe un abbassamento dei prezzi di circa dieci centesimi, cosa che non avverrà. perché già anni fa, quando si è passati dal prezzo imposto, al prezzo consigliato, non avvennero le sbandierate diminuzioni auspicate dal governo, al contrario, Infatti, se l’utente fa attenzione, noterà che i prezzi dei carburanti aumentano in occasione delle feste comandate e ferie, indice che quando i grandi flussi di traffico aumentano, le compagnie in primis sono le prime a fare la cresta sul prezzo consigliato, mentre la logica dei grandi numeri vorrebbe che quando l’erogato aumenta, i prezzi debbano seppur di poco scendere.
Ci sono altri fattori che inducono al pessimismo, e tra i tanti emerge anche il fatto che quando il petrolio schizza verso l’alto, l’adeguamento è automatico e immediato, mentre quando scende, i prezzi alla pompa (consigliati dalle compagnie petrolifere) non sono adeguati prontamente, anzi spesso ci vogliono mesi perché ciò avvenga.
Va ricordato che nel prezzo alla pompa attuale gravano ancora una tantum, partendo dalla prima mai rimossa dovuta alla guerra d’Abissinia del 1935, fino all’ultima del 2004, che aveva come scusante il rinnovo degli autobus inquinanti, che stando ai conti aggiornati al 21 agosto 205, parli a 25 centesimi di euro, o lire 485.90 delle vecchie lire.[3]
Le proposte di liberalizzazione fatte dal governo, oltre che essere inutili, sono demagogiche, fatte per nascondere ai consumatori, che l’automobilista è un pollo da spennare, una gallina a cui torcere lentamente il collo lentamente, perché lo Stato non vuole rinunciare al 60% delle tasse che gravano sui carburanti, dove tra l’altro si registra una doppia imposizione delle tasse, una tassa sulla tassa: è calcolata l’I.V.A. sull’imposta di fabbricazione.
Per aggiungere confusione a confusione,si vuole spacciare per trasparenza nei confronti dei consumatori l’eliminazione della pubblicazione quotidiana dei prezzi consigliati da ogni società petrolifera che determina condizioni di trasparenza del mercato utili solo alle società petrolifere, togliendo all’utente la possibilità di tenere sottocontrollo anche tramite la rete[4] i prezzi ufficiali.
Se il governo vuole libera concorrenza non a parole, aumenti la vigilanza sulle compagnie petrolifere, abroghi le una tantum che gravano sui carburanti, faccia sgravi sui carburanti per restituire in minima parte quanto per decenni è stato spillato dalle tasche degli utenti, imponga alle compagnie di sospendere campagne pubblicitarie, raccolte punti e amenità varie, reclamizzate a suon di euro sulle tv nazionali e locali, i cui costi si scaricano sul prezzo finale. Gli utenti hanno dei sistemi difensivi nelle loro mani da usare con intelligenza e oculatezza, ricordandosi che sono loro che detengono il portafoglio, e non farsi abbagliare da campagne pubblicitarie, non fare raccolte punti o bollini (i premi spesso arrivano dopo mesi d’attesa, e non sempre sono quelli voluti), evitino per quanto possibile le stazioni di servizio autostradali (i prezzi sono più alti e non sempre commisurati alla qualità dei servizi) controlli che il prezzo esposto sia lo stesso della colonnina erogatrice, controlli che il benzinaio introduca effettivamente quanto richiesto (varrebbe la buona norma di scendere e osservare di persona, o posizionarsi con il finestrino in modo da poter vedere la colonnina erogatrice).
È certo però, che nonostante le belle parole, tutto rimarrà inalterato, non importa che i gestori abbiano minacciato due giorni di sciopero, a volte sono scioperi annunciati, ma poi revocati pochi minuti prima della chiusura serale, intanto i cittadini hanno fatto la fila per riempire i serbatoi, con gaudio (e rischio rapine) dei gestori, ma soprattutto delle compagnie petrolifere, che sanno che pochi giorni prima dello sciopero i gestori riempiono le cisterne, anticipando il carburante che acquisterebbero in due o più settimane, in una settimana sola, facendo scucire agli utenti che fanno il pieno, euro che spesso spalmerebbero in una o due settimane, ma che il panico da sciopero porta inopinatamente a fare, scrivere in massa ai marchi petroliferi (compagnie) pretendendo che i prezzi si abbassino con la stessa repentina velocità con cui si alzano.
Nota di storia: dopo i vari ricorsi delle compagnie petrolifere, arrivate fino al Consiglio di Stato, la decisione definitiva fu: multa annullata[5], nessuno ha pagato, il cartello non c’è stato, ed ora si riparte come Sisfo, nuovamente da capo.

Marco Bazzato
24.01.2007
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[1] faib.it/antitrust_8giu00.htm
[2] repubblica.it/2007/01/sezioni/economia/benzina-libera/benzina-antitrust/benzina-antitrust.html
[3] corriere.it/Primo_Piano/Economia/2005/08_Agosto/20/benzina.shtml
[4] kataweb.it/utility/benzina/intro.html
[5] corriere.it/Primo_Piano/Economia/2005/08_Agosto/20/benzina.shtml

domenica 21 gennaio 2007

Proposta di legge sulla negazione dell’olocausto

In questi giorni il guardasigilli Celmente Mastella, ha presentato una proposta di legge che introduce il reato di negazione dell’olocausto[1].
Una proposta di legge che a prima vista può apparire giusta e corretta, mentre è in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione Italiana[2], perché impedisce la libera espressione del pensiero con la parola e lo scritto, e porta a pensare che non sia il frutto di una libera scelta dell’estensore ma proposta o imposta da qualche lobby nazionale o internazionale o religiosa, minando l’autonomia di un ministro italiano della Repubblica.
Tale proposta di legge è ancor di più inaccettabile perché potrebbe indurre a pensare ad un segno di debolezze e mancanza d’argomenti innanzi al tema trattato, e si preferisce punire anziché informare coloro che la pensano, giusto o sbagliato che sia, in modo diverso.
La storia dell’olocausto del resto è chiara, e nessuna persona potrebbe avere argomentazioni sufficientemente valide per smentire quanto è universalmente riconosciuto, ma deve rimanere il diritto di mettere in dubbio modalità e cifre, non perché non siano state criminalmente elevate, ma perché la storia, anche attraverso quelli che con disprezzo sono chiamati revisionisti, ha la possibilità di tener vivo un dialogo, una memoria, ma non raccontata a senso unico, ma viva nella libertà d’essere messa in discussione, ridimensionata con la ricerca stessa della verità su quello, che secondo alcuni, sono numeri spaventosamente elevati, e necessitano di ricerche più approfondite per arrivare ad un numero esatto di morti accertati.
Impedire questa ricerca, additando come scusante politica l’antisemitismo, sarebbe controproducente, perché l’istituzione di una legge che nega anche la libertà di ricerca, pubblicazione e diffusione, se non sotto il dominio di un'unica parte, è un attacco alla storia stessa, e potrebbe spingere molti a non accettare acriticamente i fatti, spingendoli ad indagare più a fondo, portando alla luce realtà storiche, personali e sociali che non si vorrebbero pubbliche come ha dimostrato anche la recente conferenza Iraniana sull’Olocausto che ha mostrato la debolezza dell’occidente sia perché non ha potuto impedire che quell’assise si compisse, presa dalla foga e dalla paura di un risveglio di rigurgiti antisemiti, la stampa italiana non è stata coraggiosa, forse spinta da pressioni, nel dar spazio a tesi bollate, forse senza essere lette e comprese nella loro profondità come negazioniste; mentre leggendo in siti considerati alternativi, si ha avuto l’idea di un confronto tra storici, forse eretici, di rabbini ultraortodossi ebrei di nazionalità israeliana che forse per la prima volta hanno avuto la possibilità di rendere pubbliche opinioni e studi, facendo emergere la debolezza dell’Europa, i sensi di colpe morali marchiate a fuoco sulle psichi in chi non era né nato, o non era presente alle atrocità commesse, colpevolizzati immoralmente per fatti non compiuti.
Questa proposta di legge, se per sventura venisse approvata, sarà una pietra miliare contro della libertà d’espressione degli italiani, e tra le tante conseguenze potrebbe generare il silenzio dei giusti, reso necessario dalla paura di ritorsioni penali, portando alla cancellazione o alla rimozione della memoria stessa.
Forse, dopo più di sessantanni è ora di consegnare l’olocausto alla storia del millennio passato, concentrando gli sforzi sui genocidi attuali, altrimenti è solo ipocrisia, quando si afferma che la memoria della Shoah serve per non dimenticare, per impedire che tali tragedie non si ripetano, mentre tutti i giorni, la realtà è ben diversa.
Forse i genocidi attuali sono di categoria inferiore, non eletta come dice il vero pensiero, espresso in testi non purgati di Mishnah (testo sacro ebraico), erroneamente o volutamente tradotto in modo arbitrario ed incompleto nel film Schindler's List in che dice: Colui che salva una sola vita salva il mondo intero.[3]
Marco Bazzato
20.01.2007
http://marco-bazzato.blogspot.com/

[1] .lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200701articoli/16856girata.asp
[2] Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
[3] “ognuno che distrugge un'anima ebraica fa, secondo la Torah, come se avesse distrutto l'intero mondo. E ognuno che salva un'anima ebraica fa, secondo la scrittura, come se avesse salvato l'intero mondo.” da: htwikipedia.org/wiki/Schindler's_List#Titolo_e_interpretazioni


giovedì 18 gennaio 2007

Commemorare la Shoah?

Mancano pochi giorni al Giorno della Memoria, al giorno in cui si commemorano le vittime della Shoah l’olocausto ebreo compiuto dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, ma in questo giorno si dovrebbero commemorare non solo la memoria delle vittime del nazismo, perché non si possono dimenticare gli orrori quotidiani che ha più di sessantanni dalla fine della seconda guerra mondiale continuano a perpetrarsi sul pianeta.
È di pochi giorni fa la notizia che nel solo Iraq, la guerra civile, lo scorso anno ha fatto trentaquattromila vittime. Trentaquattromila, in questa cifra spaventosa non sono accluse le vittime causate da bombardamenti, massacri indiscriminati compiuti dall’esercito occupante da, quando hanno invaso il paese per detronizzare il dittatore da poco condannato per la strage di 146 curdi, ammazzato a sangue freddo tramite impiccagione, dopo il verdetto di condanna a morte.
Nessuno vuole cancellare la memoria dell’orrore nazista, ma non si può in nome di quella memoria cancellare o rimuovere, o fingere che non esistano orrori e i genocidi compiuti, senza andare troppo a ritroso nel tempo, negli ultimi vent’anni, quelli per uno strano gioco della politica internazionale, sono volutamente lasciati all’angolo, inseriti cinicamente in altre classificazioni, o interpretazioni capziose, dove però i superstiti non hanno diritto di parola, non hanno diritto di racconto nelle scuole europee ed italiane.
Il mondo civile avrebbe l’obbligo di ricordare l’olocausto, se questo ricordo non fosse circoscritto, se assieme a questo olocausto disumano, inumano, bestiale e criminale, fossero accostati tutti gli altri olocausti arbitrariamente dimenticati.
A Milano nella stazione del capoluogo lombardo, è stato inaugurato il Museo dello Scalo 21, ma circoscrivere la sofferenza al solo popolo ebreo, che non sono state le uniche vittime della barbarie nazista, quando a tutt’oggi i morti innocenti delle barbarie che si compiono in più parti del mondo provengono da altri regimi, democratici o totalitari che di si voglia, da democrazie che in nome di una libertà di parte occultano sofferenze, stragi, violenze, case bombardate e date alle fiamme di cittadini inermi, che al pari degli ebrei di sessantanni fa, hanno l’unica colpa d’essere nati sotto una bandiera, o in uno stato, o hanno una religione considerata avversa.
Non sarebbe giusto sentire nei prossimi giorni solo le testimonianze degli scampati ai Lager Nazisti, ma si dovrebbero ascoltare anche le storie d’altri cittadini, non importa di che provenienza etnica, religiosa o politica, che raccontassero le loro esperienze, le sevizie subite in centinaia di lager sparsi ancor oggi nel mondo, perché è accostando la sofferenza e l’atrocità passata con quella contemporanea, unendo sotto un abbraccio ideale, quanti costretti dalla criminalità oppressiva di un regime, non importa che si chiami repubblica o democrazia, dittatura di destra, o di sinistra, o retta da teocrazie sanguinarie, continuano a sterminare impunemente, che si capirebbe l’unità della sofferenza, la forza simbolica nel riunirsi sotto un'unica bandiera per impedire ricordando il passato è il presente, che nel mondo d’oggi, non esistono crimini o criminali di seria A o serie B, ma che la giustizia e l’esecrazione pubblica è indistinta, contro chiunque si macchia di crimini contro l’umanità.
La Shoah non appartiene solo al popolo ebraico, appartiene all’uomo, appartiene al bianco, al nero, all’ebreo, al cattolico, al musulmano, appartiene all’uomo che come frutto universale di questa Terra, continua ad essere vittima di divisioni, rancori odi intestini, vendette e soprusi, altrimenti la memoria diventa dogma, e il male assoluto di un popolo, di una religione di una storia, della cultura europea che ha sofferto le atrocità del nazismo, rischia di far diventare relativa la sofferenza d’altre storie, d’altri genocidi, d’altre mattanze ideologiche e barbariche che non si sono arrestate, ma semplicemente non sono commemorate, cadono nel dimenticatoio, nell’oblio, nel nulla.
La Shoah perché diventi vero patrimonio dell’umanità, lontana da speculazioni politiche ideologiche, o di Stati Canaglia, secondo un’opinione arbitraria, ma non per questo necessariamente condivisa da tutti, deve andare oltre il tempo che l’ha causata, trasformandosi, evolvendosi, in un esempio a politico, laico, privo di retoriche ideologiche, ma che abbracciano la sofferenza e il sacrificio di quanti sono vittime sacrificali dell’altare maligno edificato dall’uomo nel nome della sua sete di potere.
Considerare la sofferenza del popolo ebreo, come la sofferenza d’ogni popolo, di ogni uomo, come il dolore struggente, il pianto d’un bimbo che perde il padre e la madre, il pianto di un genitore che vedono dilaniati i propri figli da un attacco suicida, da un kamikaze, da una cluster bomb, da un cecchino che come un vile spara nel mucchio. Ogni morte innocente è Shoah, e sarebbe giusto vedere uniti in quest’abbraccio ideale ebrei, cristiani, musulmani, atei, uomini d’ogni confessione o idea politica vittime d’ogni disumana tragedia umana si abbracciassero e si confrontassero, parlando degli orrori, denunciando senza giudicare, senza condannare, per offrire testimonianza al mondo, che il ricordo degli orrori passati ha lo stesso orrore e dolore struggente degli orrori odierni, in qualunque latitudine, e indipendentemente dalle motivazioni, l’unico dramma finale, la barbara soluzione finale è la morte dell’uomo stesso e della sua umanità interiore.

Marco Bazzato
17.01.2007
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Alessandro Maria Jetti Notturno, ore tre


Descrivere la delicatezza non è mai facile, e con le opere di Alessandro Maria Jetti non è da meno, perché fin da quando ho conosciuto i suoi scritti, ho trovato che sia l’autore sia le parole che fluivano dalla sua penna, nascondessero un bisogno di toccare e percepire le realtà vicine e lontane in modo netto e chiaro. Alessandro è un poeta delle percezioni pure, e questa purezza deriva dal vissuto, dalla carica esperenziale dell’uomo che non si è lasciato travolgere dalle malinconie del tempo che corre, ma che lo sente come immobile, fermo, dove, però non è spettatore passivo che si lascia scivolare dagli eventi.
Alessandro, nelle sue poesie, tocca gli eventi come un danzatore conscio del peso degli anni, danza sulle parole al ritmo dell’esperienza, senza fretta o l’ansia di correre appresso al tempo, per questo arrivano, giungono e passano leggiadre, l’una dopo l’altra, con la consapevolezza d’aver lasciato una piccola traccia.
In notturno, ore tre è come se ci fosse un sottilissimo filo d’Arianna, un percorso non scritto e non palesato dove l’autore vuole condurre il lettore a soste cadenziate, soffermandosi in quegli angoli remoti, dimenticati o rimossi per fretta, paura o pigrizia, o per semplice mancanza di volontà di vedere cosa si nasconde sotto quella coltre di polvere che si forma nella mente di ognuno.
Jetti è il poeta dei ricordi, della nebbia che si dirada, dei frammenti che tornano in superficie con leggiadria, con l’indomito spirito del bambino curioso si soddisfa nei particolari. Le sue poesie sono sprazzi gettati al vento, e i frammenti raggiungono il lettore in punta di piedi, quasi chiedendo scusa per le intrusioni, quasi a volersi scusare del bisogno di fermarsi a riflettere, a vivere i momenti, attimi presenti e passati sotto un’ottica diversa, dove si ha l’impressione di un ”Amico ritrovato” che “Ancora Insieme” ci tende il filo dell’”Aquilone” e con “Dolce Smarrimento” ci accompagna guidati da “Una folata di Vento” “Fuori dal Sipario”.
Oltre quel sipario si riscopre una parte di se, forse abbandonata, o rinchiusa in qualche angusto stanzino che reclama d’uscire, vuole farsi sentire, udire per rendere partecipi gli altri della propria esistenza, soffermandosi con leggiadria in “Psiche mia”, entrando in ognuno, in tutti o in nessuno, ma aprendo un’ennesima porta diversa, e di soppiatto scava piano nella mente senza toccare anche ferite, ma facendole tornare alla luce, fissandole, guardandosi dentro, per poi andarsene nuovamente.
notturno, ore tre di Alessandro Maria Jetti, come in una notte insonne tiene sveglio e compagnia, prende per mano, accarezza senza stupire con stupefacenti parole, con eloqui al limite dell’arcano, dell’ignoto, ma accarezza con la semplicità dell’uomo vissuto, con la volontà dell’uomo che dal passato trova giovamento per guardare verso al futuro, e come ogni poeta vero nel cuore, vuole comprendere tutti dal rapimento della parola generatrice di movimento e vita.

Alessandro Maria Jetti devolve tutti i proventi dei diritti d’autore alla Associazione Emergency, un piccolo grande gesto di solidarietà a favore di quanti soffrono nei luoghi più sperduti del pianeta a causa delle guerre causate dalla barbarie e dall’animalità disumana dell’uomo.


Marco Bazzato
18.01.2007
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mercoledì 17 gennaio 2007

L’anarchia dei cognomi

I figli potranno avere il cognome del padre o quello della madre oppure quello di entrambi[1].
La scelleratezza politica, in nome del politicamente corretto, non ha confini, perché nel nome del diritto di tutti, non ci sarà il diritto di nessuno, ma caos confusione e anarchia, e uno Stato che si fa beffe della storia, delle tradizioni millenarie, distruggendo discendenze e consuetudini non si può definire civile.
Questa decisione presa dalla Commissione di Giustizia del Senato apre la strada alla confusione, al non sapere chi è figlio di…
Prendiamo l’esempio d’una famiglia, dove il patriarca ha generato tre figli maschi. Questi tre si sposano e a loro volta le mogli mettono al mondo un figlio ciascuno, e tutte e tre decidono di dare ai figli il loro cognome, tagliando di fatto il filo che li legava all’albero genealogico maschile di discendenza, creando un nuovo albero che a sua volta in caso di successivi figli, potrà portare cognomi diversi in nome di un femminismo estremo etero guidato da forze disgregatrici dei valori familiari radicati, che annullano i vincoli di paternità e di discendenza paterna, cancellando in linea di principio il valore simbolico del pater familias.
Il maschio, l’uomo è messo all’angolo da questa legale possibilità che ridurrà ancor di più il suo ruolo all’interno della famiglia, in quanto il figlio o i figli, per superbia o vanità femminile si vedranno imposti, o anche se comunemente accettati di presunto buon accordo un cognome che li slega dall’immagine e dalla storia paterna, per creare una nuova storia che si potrà interrompere ad ogni successiva discendenza, confondendosi in una babele di ascendenze che in futuro potrebbero anche risultare di difficile tracciabilità.
Non si tratta in questo caso di difendere un diritto maschilista, ma difendere un diritto e un dovere storico, un dovere che da tempi immemori per quella che è la cultura e la tradizione italiana è ricaduto sulle spalle del maschio, ma con questa decisione distruttiva e degenerante, potrebbe portare ad un nuovo passo dello sfaldamento sociale e dei valori che dovrebbero rimanere capisaldi e punti fermi all’interno della famiglia, e dove lo Stato in questo caso, ampliando la possibilità di scelta, si assume una responsabilità non indifferente d’aumentare gli effetti nefasti che questa legge potrebbe portare in seno al primo nucleo fondamentale della società: La famiglia.

Marco Bazzato
17.01.2007
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[1] .repubblica.it/2007/01/sezioni/cronaca/cognomi-figlio/cognomi-figlio/cognomi-figlio.html

Rocky Balboa


Silvester Stallone è tornato con l’ultimo capitolo della saga di Rocky iniziata più di trent’anni fa e a più di quattordici anni dall’ultima fatica cinematografica pugilistica, con l’epilogo che ha un sapore amaro, invecchiato, gonfio e bolso come il protagonista con addosso i segni evidenti dello scorre del tempo, e vive di ricordi, in una solitudine circondata da cimeli e racconti fatti ai clienti del ristorante “Da Adrian,s” di cui è titolare. Nemmeno il rapporto con il figlio è idilliaco, i due hanno continui scontri, e il peso per la perdita dell’amata moglie lo fa vivere in un limbo sospeso, dove i flash back degli incontri passati, dei momenti di gioia, dell’amore vissuto con l’amata, sono in conflitto con l’amara realtà degli anni che sono passati.
Balboa è stanco, è tornato ad indossare il solito cappello da bullo di periferia, giacca in pelle nera, e si muove nei sobborghi di Filadelfia come un fantasma braccato da altri fantasmi, come un cane randagio che ha smarrito la collocazione temporale.
Stallone in questa sua ultima fatica è tornato agli esordi, è tornato a visitare quei luoghi che l’hanno reso celebre, e in Balboa rende omaggio alla sua ascesa in quello che fino a pochi anni fa, anche per lui era l’Olimpo degli attori Hollywoodiani, dove l’attore e il protagonista hanno i segni nel volto di mille battaglie, e fatiche reali o immaginarie.
Rocky Balboa è un film nostalgico, è l’epilogo, l’elogio, l’epitaffio della decadenza, il viale del tramonto che si tinge di rosa tenue, colorandosi di un sentimento nuovo per il vecchio campione tornato sul ring a quasi sessant’anni, per rivivere i fasti di una giovinezza perduta, dove la goffaggine si vede fino in fondo, non è stata risparmiata la maschera di sofferenza, il fiatone corto, il sangue che scorre copioso dal setto nasale colpito per l’ennesima volta, ma il vecchio leone vuole ruggire per l’ultima volta, per vincere il mostro della solitudine che lo consuma come un cancro, vuole avere un’ultima chance per riprendersi una vittoria morale contro il dolore, contro la perdita degli affetti, contro la dipartita della moglie che si presenta in ogni attimo nei suoi pensieri.
Il film nella sua semplicità è struggente, ma è una battaglia perduta contro il tempo e contro se stesso, è una battaglia dolorosa che riparte dal sudore degli allenamenti, dalle flessioni fatte con fatica e difficoltà, ma è anche un inno, una marcia trionfale verso una vittoria, che ha il sapore di una nuova scoperta, che profuma non solo di sudore stantio e ammuffito in una vecchia palestra, ma profuma dell’aroma di una vita che non vuole morire, che non vuole solamente sopravvivere, ma continuare a vivere.
Un film ha molti pregi, ma anche molti difetti, ma sopra tutti troneggia un Silvester Stallone che ha fortemente voluto questo suo ultimo ritorno di uno dei suoi altar eghi preferiti, ed ha avuto il coraggio di farlo tornare con la mollezza dei suoi sessantenni, i muscoli flaccidi, e i movimenti lenti, tremendamente lenti, i pugni che sebbene facciano ancora male, sono goffi, tentennanti, a tratti leggermente paurosi, ma è tornato per dare l’addio ad un personaggio cinematografico che ha segnato la storia e i costumi degli ultimi trent’anni, e l’ha fatto con una prova di coraggio, tornando a rivisitare il passato, entrando in quell’angolo della memoria non solo di Rocky Balboa, ma di tutti i suoi fans, dentro la storia stessa, e per farlo è ripartito dagli esordi, dalla decadenza, dalla polvere e dalla muffa, la stessa polvere e la stessa muffa che si annida dentro la mente di ogni uomo quando, forse si sopravvive al proprio tempo, quando si sopravvive e si vive seduti davanti alla tomba di una persona amata, quando chi ti amava non c’è più, e la solitudine è l’unica compagna di vita, ma Rocky si alza da quella sedia, si allontana da quel cimitero come un eroe solitario d’altri tempi, pronto per accettare finalmente il viale del tramonto.

Marco Bazzato
17.01.2007
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lunedì 15 gennaio 2007

Il diritto alla poligamia?

È il sogno di molti uomini, la fantasia sessuale forse più comune nel maschio, è quella d’avere più di una donna nel proprio letto per condividere non solo le gioie del talamo, ma anche nella vita di tutti i giorni, e forse la poligamia è quel desiderio palesemente inespresso, ma praticamente più attuato da molti uomini Italiani e non solo.
Diciamocelo chiaramente, in un paese dove l’ipocrisia regna sovrana, dove lo sfoggio dell’ultimo modello di Porche Cayenne va di pari passi con la voglia di stupire avendo l’amante a fianco, forse l’idea della poligamia sebbene apparentemente è passata di moda, tale pratica continua a circolare nel sottobosco di ricchi e poveri, senza fare distinzione di classe, e allora perché non superare l’ipocrisia nazionale, culturale e sociale dando alla relazione poligama lo status giuridico, equiparandolo a piccole società di fatto, dove i diritti e i doveri sono legalmente garantiti e tutelati, andando oltre a quell’insana pratica di spennare come un pollo il povero disgraziato beccato a letto con l’amante di turno?
D’altronde il tradimento è diventata una costante sociale, anche se queste accezzioni minoritarie mettono in ombra la maggioranza dei matrimoni monogami o le stabili convivenze.
Forse la volontà comune di tanti maschi sarebbe quella di far coesistere pacificamente, magari sotto lo stesso tetto, o sullo stesso letto due o più donne, che sono costrette a scoprire l’altra metà della passione del marito, da nuovi profumi, rossetti stampati sul collo della camicia, o da sms lasciati per errore sul cellulare.
Certo, lo stato non deve mettere il naso negli affari privati e soprattutto sotto le lenzuola o nelle camere d’alberghi di lusso o d’infima categoria, dove gli amanti sono costretti a rifugiarsi per timore delle ire della legittima consorte.
Il paese ha bisogno di una nuova svolta culturale, di un approccio a vedute con vendute più ampie e meno moraleggianti, fondate su una morale diversa, non libertina, ma limpida e alla luce del sole, non su una morale che abiettamente punisce l’uomo che nella necessità di vivacizzare un rapporto matrimoniale a volte logoro, si vede costretto a cadere tra le braccia di un’altra donna.
Il problema principale, non sarebbe da parte maschile, ma sarebbe quello di far evolvere il pensiero femminile in ragione di un’apertura emotiva e mentale più ampia, meno chiusa dentro dogmi desueti, o etiche ipocrite che sanno da medioevalismo dell’anno mille.
Forse i benpensanti, oppure i pensanti, specie da parte femminile si scandalizzeranno, ma di certo molte donne, al pari di molti maschi, non si scandalizzano nell’avere una relazione clandestina con uomini sposati, e spesso né fanno pure una virtù, usando, esattamente come gli uomini le solite scusanti arcaiche, vecchie, logore e che sanno di polenta ammuffita, o di ragnatele mentali del tipo: mia moglie non mi capisce, io lo capisco meglio di sua moglie, le do quello che lei non le sa dare, e quant’altro di più banale si può utilizzare come scusa.
Non possiamo dimenticare che viviamo dentro un economia di mercato, dentro una società dove la concorrenza spinge sempre di più sull’acceleratore dell’innovazione, della scoperta, dell’evoluzione dei costumi anche dei modi di pensare e d’agire dei singoli individui, e non si vede il perché questa concorrenza benefica non debba essere portata all’interno del focolaio domestico, sotto le lenzuola, nella vita di tutti i giorni.
Due o più donne dividendo in totale accordo lo stesso marito, possono fornire una spinta che può solo migliorare le relazioni sociali non solo all’interno della famiglia, ma anche all’esterno, offrendo all’uomo la possibilità non maschilista, ma dettata dalla liceità d’avere più di una moglie non più in concorrenza con l’amante, ma complice della stessa, dove nessuna delle due o più, è in guerra per prendersi i favori dell’amato, ma sanno che potranno disporre del soggetto del proprio amore senza più il timore di doversi nascondere, gettare soldi in frettolose camere d’albergo, o peggio avere figli non riconosciuti.
Vedere un ritorno all’antico, un ritorno a tradizioni familiari dimenticate, diverse, a tradizioni che nei millenni passati hanno contribuito in maniera sostanziale all’evoluzione della specie stessa, non deve essere visto o vissuto come l’attaccamento a qualche religione particolare, ma solamente a rendere chiaro, a fare outing, come si dice oggi per situazioni diverse di una realtà nascosta, alla fine spesso solamente alla povera moglie cornuta.

Marco Bazzato
15.01.2007
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Narrativa Contemporanea Bulgara: Alla ricerca di un editore: Romanzo Peccabilità Di Vessela Lulova Tzalova

Peccabilità è il primo romanzo della giornalista e traduttrice bulgara Vessela Lulova Tzalova, che già aveva deliziato il panorama letterario del suo paese con la raccolta di poesie “Gemiti Sventurati”con la prefazione e la recensione Italiana curata da Massimo Acciai direttore del Sito Letterario Segreti di Pulcinella, che ha fatto parlare di se per la struggente forza demolitiva delle umane emozioni, dei dolori, dell’avvizzimento del corpo e della mente innanzi alla sofferenza.
Con la sua nuova opera la traduttrice per la Bulgaria dei romanzi di Valerio Massimo Manfredi, di Luca Bianchini, Sveva Casati Modignani, e altri scrittori italiani contemporanei, Vessela Lulova Tzalova, si addentra nell’amore misterioso che unisce una giornalista Bulgara innamorata di un valente scrittore del nordest italiano di fama internazionale, ma è un amore contrastato, che deve combattere contro la perversione, contro la caduta dell’uomo, dei suoi familiari, della storia del casato dello scrittore, nella ritualità misteriosa e maligna delle sette segrete d’ispirazione Croweliana, da cui il maestro nero Antony le Vai ha tratto ispirazione per la sua chiesa Luciferina.
È all’interno di queste realtà esoteriche e lucifernine che, Olivera la protagonista, si muove con la delicatezza e charme in una ricca Parigi, dove l’incontro casuale ad un ricevimento con il capo della setta, la porterà la ad iniziare a scavare per trovare la verità di quel suo amore infelice, scontrandosi con l’ineluttabilità della storia della dinastia Bianchi, gli orrori, le violenze fisiche, psicologiche e sessuali, che hanno formato negli anni quell’onorata famiglia della ricca borghesia.
Olivera, nonostante la sofferenza per le scoperte fatte, non si arrende, e a costo di sopportare patimenti, umiliazioni, la perdita dell’Io e dell’identità affranta e ridotta ad un’ombra, che la protagonista chiama il suo Tempo Morto, non si lascerà abbattere, ma continuerà una vita fatta in sopravvivenza estrema, maniacale, compulsava e apparentemente autodistruttiva.
L’autrice, ha la struggenza che solo i grandi scrittori bulgari, cresciuti e maturati all’ombra della scuola letteraria russa e francese sanno creare con atmosfere e personaggi che vivono la decadenza come arte estrema delle emozioni, vissute superando il limite delle barriere morali e psicologiche che distruggono l’uomo eccelso o demoniaco, dove l’abisso della dannazione è l’unico rifugio possibile da una realtà impossibile da accettare.
In Peccabilità di Vessela Lulova Tzalova, non esistono emozioni a metà, emozioni sfumate, sensazioni che devono essere spiegate, le emozioni in Peccabilità sono forti, reali ed ossessive come il martello di un fabbro che batte il ferro scaldato per modellarlo secondo le forme della sua volontà.
I personaggi sono secchi, duri, a contorni foschi, al limite della sgradevolezza emotiva, e senza sbavature mantengono le caratteristiche della nazione d’appartenenza, come quella dello scrittore italiano vittima dei segreti celati per anni dalla madre, dalle aspettative di ricchezza del padre impone allo sfortunato un matrimonio di facciata, o Raffaele, il collega napoletano di Olivera, che con la sua presenza apparentemente marginale è una costante solare, ricca di vita e carica emotiva, tipica del sud Italia, che aiuta la giovane amica bulgara ad affrontare le avversità del suo amore disilluso.
La stessa Olivera è l’immagine di una Balcanità poco conosciuta in Italia, forte nelle convinzioni, fino al limite dell’annichilimento e distruzione personale, sanguigna ma dolce, dura ma tenera, senza mai essere melansa o falsalemte mielosa.
Peccabilità di Vessela Lulova Tzalova, viaggia attraverso l’Italia, partendo da Venezia, spingendosi a Torino, sotto la Mole Antoneliana, nel ricco nordest italiano dove si svolgono parte delle vicende della famiglia Bianchi, a Sofia in Bulgaria, patria di Olivera, dove la narrazione della vita sociale è un affresco in perenne in movimento, mai fermo in un unico punto, ma mobile, come è mobile la frenetica vita della capitale bulgara.
In Peccabilità non esiste casualità, ma solo il fato, il destino avverso che si scaglia contro la protagonista, esiste l’ineluttabilità della perdita dell’amore di Lea Morel, che dopo la morte dell’amato Bernar, vive il resto della sua esistenza dedicandosi alla beneficenza, consumandosi per gli ultimi tra gli ultimi, mossa dalla volontà di preservare il ricordo del marito precocemente perduto, che la porterà ad incontrare la giornalista bulgara con cui stringerà una lunga amicizia, spalancando ad Olivera le porte dell’alta società parigina dove, però celati dai modi affabili di un’aristocrazia sclerotizzata che celebra i propri riti nei meandri dei sotterranei in castelli Torinesi, Francesi e Svizzeri, la giornalista inizierà a comporre il puzzle della sua vita, portando alla luce i continui inganni e dei tradimenti subiti dall’amato scrittore italiano.
Peccabilità è un oscuro viaggio d’amore, una partenza senza capolinea iniziale, che scorre nei sottoboschi di un’Europa sfavillante, ricca ma tenebrosa, dove la volontà di giustizia e sete di verità, porterà Olivera ad autoesiliarsi per anni in una casa di pescatori in riva al mare di Tolone, attendendo che il Tempo Morto giunga al termine, senza recedere dai punti fermi, rimanendo in periferia dell’orizzonte degli eventi nell’attesa che la giustizia bussi alla porta del cuore.
L’autrice Vessela Lulova Tzalova ci ha consegnato un’opera prima di sicuro impatto emotivo e psicologico, dove non esiste appiattimento, e il lettore italiano poco avulso alla letteratura Bulgara, troverà sicuramente un modo per riconoscere se stessi, i propri pregi, difetti, disvalori etici e morali, che pervadono come un’onda anomala da decenni l’Europa intera senza distinzione di nazionalità, dove la volontà della protagonista bulgara è il motore propulsivo di una storia d’amore d’altri tempi che ha in se una contemporaneità attuale, magistralmente descritta dalla scrittrice.

Marco Bazzato
15.01.2007
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sabato 13 gennaio 2007

“Liberaci dal male”

È la frase finale del Padre Nostro, ma dopo i recenti fatti degli ultimi giorni dove u una famiglia è stata trucidata assieme ad una vicina di casa e ferito alla gola il marito da una coppia apparentemente normale. Viene da chiedersi dove si annida il male, e cos’è esso veramente sia.
Il marito della donna uccisa, che oltre alla moglie ha perso la figlia ed il nipotino di due anni, ha perdonato i barbari criminali, gli sterminatori della porta a fianco, i vicini litigiosi, che non sopportavano il disordine, e la donna maniaca dell’ordine e della pulizia è stata l’istigatrice feroce della strage. È proprio davanti a queste tragedie che i religiosi parlano del ritorno di Caino, figlio degenere d’Eva che ammazzò, secondo la Bibbia, il fratello. Gli psichiatri si arrovelleranno per dare spiegazioni, studiare, capire le dinamiche che possono spingere una coppia apparentemente normale a macchiarsi del sangue di quattro persone, ma non ci sono spiegazioni, solo giustificazioni, scuse, citazioni, riporti di frasi ed eventi passati o relativamente recenti usati in modo arbitrario per cercare di capire la provenienza, l’origine, il seme nato e cresciuto in un terreno infecondo, in una terra malata, cresciuto all’interno della mente di una coppia che nella loro maniacale perfezione, nascondevano e covavano in seno un germe malefico: Il male.
Il male, quell’entità arcana che la società contemporanea, forse ormai troppo secolarizzata, o laicizzata, dipende dal punto di vista, e dal tipo d’approccio che si vuole usare, tende a rimuovere, a dimenticare, ad omettere, a non voler più né vedere, né accettare come parte integrante e fondante della stessa società.
Non potremmo mai liberarci dal male, perché esso permea con sfumature diverse l’uomo dagli albori. Ci sono troppe definizione di “Male” di “Maligno, ma tutte, nei loro risvolti umani, personali e sociali sono una necessità privilegiata della naturalità umana. Il male è uno stato d’essere, un’essenza che vive nella natura umana. Si forma lentamente come una preziosa perla rara, lentamente si genera, si sedimenta, si crea, per poi schiudersi in tutta la sua ferocia distruttiva, contro se stessi, o contro lo specchio distorto dell’altro, della parte più oscura e non riconosciuta della propria essenza. È una realtà che vive nell’ombra come dio apparentemente immortale e si ciba della mortalità.
Il male, il maligno è una sostanza che va protetta, tutelata e lasciata libera di vivere come un cancro che porta alla distruzione, perché, come un’esplosione deflagra, e come un’onda d’urto si diffonde, ma è in questa deflagrazione che nella reazione, muta, trasmuta, modifica, infonde nuova vita, rigenerando l’uomo stesso.
Il bene ha bisogno di un’antagonista, di una spalla, di un comprimario silenzioso, che cova come il fuoco sotto la cenere, per manifestarsi, per fa nascere il cambiamento, l’evoluzione, la coscienza e la conoscenza, Il bene stesso senza il male, il dolore, senza sofferenza, distruzione, ed esaltazione del lato oscuro, è un orfano, un soggetto solitario e derelitto. Il bene perde la sua forza propulsiva senza il maligno, come il maligno stesso, l’atrocità, la barbarie non può trovare sfogo e virulenza senza l’assenso del bene, che per sua natura lascia libertà di scelta d’agire, di crescere e muoversi entro ogni tipo di sinistra via.
Quindi non si può affermare… “liberaci dal male”, ma bensì “Libera il male” dalla gabbia in cui è recluso, prigioniero sofferente, perché è proprio quella prigione, la prima fonte ispiratrice dei propositi distruttivi, e alla fine sempre autodistruttivi e creativi. Il male, il maligno, nella sua abietta virtù è una delle essenze continuative della creazione stessa, è uno dei motori che dà vita allo stesso universo conosciuto e sconosciuto, quell’universo fatto in massima parte da materia oscura che cerca liberazione, che cerca un naturale sfogo contro l’antagonista benigno e salvifico di sempre: Il bene.
L’uomo non può combattere il male, può solo subirlo, accettarlo, introitarlo come una parte di se, contrastandolo con la fede nella ragione, con la forza dell’intelletto e della volontà di non lasciarsi sopraffare da quanto lo macera, lo attacca, lo consuma, rendendolo ombra di se stesso. Il male è una risorsa distruttiva ma propulsiva, una realtà ineffabile che vive in ogni creatura umana nessuno potrà mai prevedere dove e in chi esploderà di volta in volta e con quali distruttivi effetti creativi, per questo il vincitore lo decide l’uomo, ma egli da solo è impotente innanzi alla sacralità annichilente che il maligno esercita sull’essere umano e sull’umanità tutta.

Marco Bazzato
13.01.2007
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venerdì 12 gennaio 2007

Erba e terra morta

Perché piangi figlio non mio,
essere demoniaco
venuto da seme straniero?
Il mio ventre non genera vita,
e quel pianto infante
sconvolge l’esistenza.
Grida la mente di sofferenza
Per quel frutto mai avuto.
Tu, figlio di una terra straniera,
camminante rumoroso sul il capo
sei la condanna
della mia terra infeconda.
Dov’è la giustizia?
La misericordia partorisce figli meticci,
lasciando me, bianca donna
carne morta senza il dono della vita?
Pesa questo dolore,
questa sofferenza,
e le bestiali grida infantili
m’uccidono la vita.
A me il calvario, la colpa,
a lei l’essere donna
madre e creatrice di vita.
Verrà la vendetta,
la notte dell’angelo sterminatore,
e le fiamme lambiranno il cielo.
Verrà la morte
sarà una gola squarciata, urlante
dell’infante meticcio.
Giungerà giustizia,
vendetta, castigo
e sangue a passi felpati,
lame taglienti e spranghe
Per ripulire il mondo
dal seme che non ho concepito.Seme, carne calata nella terra
pesando sul capo
di quello che ha attraversato il mare
A casa,
lontano da qui,
dal mondo civile,
lontano.
Tornerà a casa
con figlio e genitrice nelle casse
capirà il dolore
per quel frutto mai avuto.
Terminerà quel pianto bambino
quel rumore assordante
che mi affanna la mente,
e con la gola tagliata
troverò la libertà silenziosa
di quelle grida che mi lacerano il ventre.

Marco Bazzato
12.01.2007
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Nessun colpevole a Ustica

Le cronache di questi giorni hanno fatto passare in secondo piano la sentenza definitiva, che si conclude con un nulla di fatto a riguardo la strage di Ustica, e le 81 e i familiari delle 81 vittime, dopo ventisette anni, vedono svanire definitivamente la possibilità d’avere giustizia.
Nessun colpevole, il fatto non sussiste, quell’aereo caduto, esploso, abbattuto in volo, non si sa non è mai avvenuto, quei rottami raccolti e ricomposti in un hangar sono solo ferrovecchio, forse buono per essere rifuso, quei cadaveri che galleggiavano nel mare non per lo Stato Italiano non erano nessuno. I morti non sono morti, ed i parenti delle “vittime” hanno remato per anni controcorrente, hanno pianto dei cari che non avranno giustizia, perché loro non esistono, e quanto avvenuto nei cieli italiani ventisette anni fa è stato un brutto incubo, un’illusione, niente era vero, nulla era reale.
Come per il Cermis, le vittime sono sacrificate sull’altare della ragion di Stato. Ma quale Stato? Quale nazione? L’Italia ha abdicato, dato in subaffitto, in subappalto il controllo dei patri cieli? Tutti possono scorazzare indisturbati, spargere morte, dolore e sofferenza, ma nessuno potrà essere condannato.
I cavilli giuridici, i codicilli segreti, le carte protette, il muro di gomma, il silenzio complice, in nome di chi?
Non siamo un paese Sovrano, un Paese che ha il controllo del cielo, del mare, delle coste, siamo un Paese che permette che sopra le proprie teste, nelle profondità dei propri mari avvengano ogni genere di scelleratezze, e alla fine pagano solo i morti e i loro familiari innocenti per colpe non loro.
Forse questa è retorica di bassa lega, populismo da quattro euro, volgarità arrabbiata e furiosa perché nulla cambia, nulla succede che possa far credere che qualcosa si muova in direzione opposta, e la strada tracciata è sempre la stessa: Il fatto non sussiste, assolti, insufficienza di prove, segreto (di Pulcinella) di Stato…
È facile scriverlo su una sentenza, le parole escono come fiumi d’inchiostro dalla penna a sfera, dalla stampante del computer in modo freddo e impersonale, ma come si fa dirlo in faccia ai familiari che attendono la verità «Scusate, signori vi siete inventati tutto. I morti non ci sono mai stati. L’aereo non è mai caduto».
Già, forse continua a volare in un’altra dimensione, in un altro universo, in un luogo dove la menzogna non è assunta a verità di Stato, dove colpevoli, mandanti ed esecutori materiali marciscono per anni dietro le sbarre, pensando ai loro silenzi, alle omissioni, a quanto potevano dire, a quanto sapevano, ma sono stati costretti a tacere, o indotti al silenzio eterno.
Lo Stato ha promesso per ora sono parole, le stesse vuote parole dette per quasi trent’anni, che risarcirà i familiari delle vittime. Le ripagano nuove? Come potrà ripagare decenni di dolore, di depistaggi, omertà internazionale, come potrà risarcire le vittime di un fatto che non è avvenuto? Se non è non è mai avvenuta perché pagare, perché lo Stato deve risarcire i familiari di un evento mai accaduto, dove non ci sono colpevoli?
Si potrebbero pensare mille cose, fare mille illazioni, spargendo veleno sui quattro angoli della Terra, e sui sette mari, si potrebbero scrivere menzogne, falsità, seminare zizzania, e discordia, ma questo non contribuirebbe ad accertare una verità che non è successa.
Ustica non è avvenuta ed è consegnata alla storia con la triste nomea d’evento misterioso irrisolto, di un Dogma di Stato, una verità ufficiale inesistente. Forse tra cento o duecento anni, quando i tutti i protagonisti nazionali ed internazionali, saranno sotto terra, allora qualche sconosciuto topo di biblioteca, qualche archivista arrabbiato, come avvenne per il dossier Mitrokin farà uscire la verità, ma ancora sarà osteggiata, perché in qualunque epoca, in qualunque luogo, non c’è mai vera giustizia politica, né storica, né giudiziaria, ma tutto questo sebbene sia difficile da accettare non deve far venir meno il rispetto alle patrie Istituzioni, il rispetto che si deve agli assolti, ma in primo luogo le Istituzioni devono rispettare la voglia di verità dei cittadini, la sete di giustizia, il bisogno di sapere il perché a distanza di decenni non esistono colpevoli, eppure 81 persone sono finite in fondo al mare e nessuno né conosce le vere cause.
La verità è libertà, e quando essa manca, l’uomo, un Paese, uno Stato è succube, è prigioniero, ma soprattutto non è più libero, e le vittime di Ustica a distanza di decenni sono tutt’ora prigioniere, e con loro l’Italia intera.

Marco Bazzato
12.01.2007
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giovedì 11 gennaio 2007

La Strage di Erba

I coniugi Romano, sospettati di essere gli autori della strage di Erba hanno «entrambi dichiarato la loro compartecipazione, ma non hanno chiarito alcuni aspetti che sicuramente sono da chiarire». Il legale ha annunciato che l’udienza di convalida è prevista per domani mattina alle 9.30. I coniugi verranno di nuovo interrogati per rispondere alle domande del gip Nicoletta Cremona[1].
"Accusavano me perché sono tunisino. Ora meriterebbero la pena di morte" dichiara il marito della donna uccisa barbaramente.
Sono crollati di fronte a quella macchia di sangue di Mario Frigerio, l'unico sopravvissuto alla mattanza, sfuggita al maldestro tentativo di cancellarla dalla tappezzeria della loro auto.
«Raffaella li temeva, ne aveva davvero paura. Pensi che pochi mesi fa i Romano l’avevano seguita mentre lei stava andando al lavoro. Raffa se n’era accorta ed era entrata nell’atrio della stazione di Erba per telefonare ai vigili. Me l’aveva raccontato sconvolta[2]».
Sono molte le considerazioni che si potrebbero fare davanti all’epilogo di questa vicenda, davanti alla barbara morte di quattro persone, uccise lucidamente da una coppia. Ma la prima che sorge spontanea è come una donna possa essere complice di tale abomnio, dove oltre che aiutare il marito nella mattanza, mantiene per quasi un mese il sangue freddo e la lucidità nel reggere dentro il peso di cotanta violenza, dormire serena alla notte, e recarsi al lavoro il giorno seguente. La motivazione non può essere solo un odio covato per anni, oppure l’impossibilità d’avere figli, ci deve essere dell’altro, sarebbe troppo stupidamente banale, troppo maledettamente criminale, che l’invidia feroce possa portare a tale scempio indiscriminato.
Azouz Marzouk gronda rabbia e giusta sete di vendetta da tutti i pori, e con la mente sconvolta dal dolore, invoca la pena di morte, ma anche se queste reazioni possono sembrare aberranti, sono umanamente comprensibili e capibili.
Secondo quanto appreso in mattinata, sarebbe stata la moglie di Olindo Romano ad uccidere il piccolo Youssef. La signora Rosa avrebbe infierito con un coltello sul bambino[3].
A caldo ci si chiede cosa meriterebbe una donna, una “signora” del genere? Una perizia psichiatrica che la dichiari inferma di mente e quindi incapace di intendere e volere al momento della strage? Oppure lasciare lei e il marito sul piazzale del condomino dove hanno eseguito la mattanza in balia della folla inferocita? La seconda ipotesi, basata sulla giustizia sommaria, sulla vendetta di piazza, sulla legge del taglione, sarebbe la più appropriata, la più eticamente giusta innanzi a tanta ferocia, ma bisogna andare oltre al dolore comune, oltre al desiderio primordiale di vendetta, pretendendo una giustizia giusta, senza sconti, una giustizia che non si fermi davanti ai rinvii, ai cavilli legali, che non permetta alcun sconto di pena né oggi né mai, altrimenti sarebbe la vittoria delle virgole sul diritto alla vita, sarebbe la sconfitta di un bambino di due anni, trucidato barbaramente per colpe che non aveva, che non poteva avere.
Ma c’è un'altra domanda inquietante che aleggia: questa strage poteva essere evitata? Con il senno di poi, è facile puntare l’indice, cercare dei capri espiatori morali per quanto avvenuto. Forse la famiglia del tunisino è stata lasciata sola, forse le colpe dell’extracomunitario, sebbene avesse pagato il suo debito con la giustizia, era in qualche modo malvisto, mal accettato, rifiutato e quest’isolamento si è esteso anche alla sua famiglia, a sua moglie e a suo figlio.
Cosa si dovrebbe provare per gli autori della strage? Perdono cristiano, come ha dichiarato Carlo Castagna,il padre della donna? Forse in un futuro lontano, si potrà parlare di perdono, ma non si può perdonare senza espiare, senza prima che il peso di questa mattanza non schiacci per anni le coscienze dei due coniugi.
Il perdono cristiano in questo momento appare disumano, anche se va rispettata la “forza” di coloro che lo invocano e lo concedono, va rispettata la presa di posizione del padre e dei fratelli della vittima, difficilmente condivisibile, capibile e razionalmente comprensibile.
Le polemiche, le discussioni d’esperti forensi, psicologi, uomini di chiesa, membri di gruppi religiosi moderati ed estremistici del panorama cattolico italiano, non scemeranno facilmente, e ognuno vorrà trarne una verità, un insegnamento etico, un giudizio psichiatrico, una risposta morale, ma tutto questo non contribuirà a far piena luce sui veri perché di una strage che seppur confessata, forse poteva essere evitata, forse se ci fosse stata una vicinanza diversa dei familiari della donna, non del marito tunisino poteva essere evitata.

Marco Bazzato
11.01.2007
http://marco-bazzato.blogspot.com/


[1]repubblica.it/2007/01/sezioni/cronaca/erba-2/erba-2/erba-2.html
[2]lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200701articoli/16461girata.asp
[3] lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200701articoli/16461girata.asp

mercoledì 10 gennaio 2007

Più Stato e meno mercato? Ovvero sonno letargico della nazione

Spesso rileggendo le mail che mi giungono, mi sorgere la certezza che l’italiano provi un forte senso di disaffezione a tutto e a tutti, comprensibile visto l’andazzo, e il cappio al collo che come una garrota si stringe sempre di più la gola dei cittadini del Bel Paese. Da una parte si predica tolleranza assoluta, ma questa parola ha stancato, questa richiesta urlata ai quattro venti, diventando anziché sinonimo di libertà un sinonimo di tirannia, e forse l’Italia al pari del Venezuela, ha bisogno di meno mercato e più Stato, dove non siano le multinazionali a dettare le politiche europee e nazionali, ma siano gli Stati che dettano le regole interne, e non asserviti a leggi macroeconomiche, a banche mondiali, a società di rating che nel nome della produttività esasperata, dei contratti atipici, dell’esproprio del TFR a favore dei grandi fondi d’investimento, rischiano in caso di crac, vedi Parmalat, il far volatilizzare i risparmi di una vita.
C’è una crescita abissale della sperequazione economica, dove il precariato, la difficoltà di trovare lavoro a tempo indeterminato, e la deriva dell’innalzamento della soglia di povertà sta sommergendo sempre di più quella che un tempo era la classe media italiana, ridotta al lumicino, e pervasa da fremiti di povertà ante miracolo economico Italiano.
Il paese e gli italiani vivono affondati fin quasi alla gola dal debito statale e privato, dove le banche, le finanziarie martellano a ritmo di fucina industriale, le teste degli Italiani, spingendoli ad indebitarsi per ogni inezia. Porta a casa oggi e paga tra sei mesi è il motto sia dei grandi centri commerciali, sia delle industrie automobilistiche con i piazzali pieni di prodotti invenduti, e attuano la politica degli sconti e del credito al consumo del somaro da battaglia per imporre ad un mercato Europeo sempre più asfittico autovetture sempre più grandi, che consumano come il Titanic, o prodotti tecnologici e non, fabbricate sfruttando le nuove forme di schiavismo imprenditoriale, create spesso in aree protette di regimi totalitari, patrie spesso dell’odiato comunismo dal capitalismo d’assalto, che scenderebbe a patti con il grande Satana pur di produrre senza regole e garanzie sociali.
Arriverà il giorno che l’Italia si sveglierà da questo sonno della ragione, da questa corsa esasperante e sfiancate, e capirà che deve invertire l’ordine di marcia, che deve arretrare non di un passo, ma di dieci, se vuole garantire il sostentamento tignoso dei cittadini.
Una volta esisteva l’esproprio proletario, oggi vige la regola consolidata, che i risparmi sono succhiati da connivenze dubbie, per mantenere sperperi, privilegi scandalosi, che non creano ricchezza, e la marea di denaro drentata ai cittadini, in forme nuove e fantasiose, alimentano il mercato del parassitismo, dove le regole funzionano solo per ceti più deboli, costretti a subire vessazioni e angherie, costretti a stringere la cinghia ogni giorno di più, vedendo eroso il loro potere d’acquisto e sussistenza.
L’Italia da decenni ha una classe politica, non importa il colore, che taglia i servizi essenziali, e spreca sul futile, che ingrassa, erogando contributi a pioggia ad aziende decotte e indebitate fino all’osso, dove nessuno paga per gli sprechi, dove tutti hanno ragione e nessuno ha mai torto.
Forse ha ragione il Venezuelano Chevaz che sta rimettendo nelle mani dello Stato i beni che dovrebbero appartenere di diritto alla nazione e ai cittadini, non ai capitali stranieri, dove l’esempio della rapina su scala planetaria avviene in Iraq, in quanto i proventi del petrolio andranno per il 75% esenti tasse alle multinazionali petrolifere, depredando la nazione e gli iracheni della loro principale ricchezza, e la comunità internazione, Unione Europea, Italia compresa tace asservita e silenziosa davanti a questo ladrocinio.
Una volta si poteva dirsi padroni in casa propria, ma oggi sono gli altri i padroni delle nostre vite, i padroni dei nostri pensieri, delle libertà sempre più risicate, dei diritti fondamentali messi in discussione con la scusa di una guerra al terrorismo internazionale, dove però paradossalmente le stragrande maggioranza delle vittime sono civili innocenti.
Si assiste impotenti, succubi, piegati, a genocidi non più in scala locale o nazionale ma su scala globale, e il conto delle vittime degli ultimi anni, non importa da che parte stiano, fa impallidire anche l’olocausto di Hitleriana memoria.
In un mondo dove l’informazione viaggia più veloce dell’uomo, nessuno può più esimersi dal dire io non sapevo, le colpe sono solamente di altri, ma il movimenti di libero pensiero sono ostacolati dalle forze dominanti, sono ostacolati da coloro, che nell’ingorda ignoranza miliardaria vedono l’uomo solo come un oggetto, un numero su un pezzo di carta, una percentuale statistica, un soggetto da manipolare, e ancora troppo manipolabile che deve essere piegato al pensiero dominante, senza possibilità di respiro e di tempo stesso per pensare e riflettere.
La regola di meno stato è più privato sta strozzando l’economia, non solo degli stati poveri, ma anche delle superpotenze, dove pochi oligarchi, siano essi banchieri o industriali, non importa in che settore, non rendono conto all’uomo di strada, ma al profitto, agli azionisti, così alla fine nessuno paga per le colpe di pochi che ricadono su tutti, e il risorgimento italiano è cessato nell’anno 1870, sprofondando il Paese nel sonno letargico che continua tutt’ora.

Marco Bazzato
10.01.2007
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martedì 9 gennaio 2007

Zingari: una realtà insoluta

Ogni tanto in Italia, tornano alla ribalta l’annoso problema degli Zingari. Utilizzo volutamente questo nome, perché l’ipocrisia del politicamente corretto, vorrebbe che si usassero altre parole, mentre il termine d’origine ungherese Cigany è il più adatto a fotografare questa realtà non solo italiana, ma europea, che da decenni non conosce soluzione, e che torna a far parlare di se, quando, vuoi per atti dolosi, o per necessità di ordine pubblico e sociale. L’ultimo in ordine di tempo, è il caso del fossato che delimita la zona industriale di Schio, voluto dalla giunta di centro sinistra per arginare il fenomeno degli insediamenti abusivi, e della microcriminalità che poi aumenta. Per fortuna questo provvedimento è stato preso dal centrosinistra, sempre attento alle battaglie di solidarietà sociale e di integrazione multi culturale, dove però qualche volta le battaglie ideologiche, lasciano spazio a prese di posizione radicali, che se fossero state fatte da amministrazioni di centro destra, vedi l’eliminazione delle panchine nel centro di Treviso, volute a suo tempo dal sindaco Gentilini, che hanno fatto gridare all’orrore l’Italia pelosa quando i problemi riguardano altri.
Non esiste solo l’Italia buonista che si tappa gli occhi davanti un problema, quando non la tocca personalmente, esiste anche un’Italia accademica, universitaria, dove un’assistente, forse poco avvezzo nel lato pratico al dialogo interculturale, o che deliberatamente chiude gli occhi sulle realtà di casa propria, attacca deliberatamente e mette all’indice le opinioni personali di una candidata ad un Master Universitario, che spiega con poche ma efficaci parole, la situazione degli zingari nel suo Paese, estromettendola dalla partecipazione al Master, perché nella sua obiettività, non si è dimostrata accondiscendente davanti ad un problema che nemmeno le autorità italiane hanno saputo mai risolvere, dimostrando come la teoria dei pensieri e dell’astrazione ipotetica si scontri con la nuda realtà dei cittadini italiani, che sono costretti per scelte scellerate dell’amministrazioni comunali a vivere accanto a campi nomadi non attrezzati, dove il disagio sociale, anziché essere lenito aumenta anche nelle adiacenze.
La situazione deve trovare una soluzione, ma non con campagne ideologiche, gridando al razzismo quando le case dei cittadini sono svaligiate di notte, ma trovando una degna sistemazione di queste comunità da parte di coloro che lavorano per l’integrazione. Questi signori cosi pronti ad urlare in casa d’altri, potrebbero accoglierli negli androni dei loro condomini, nei parchi delle loro ville, nei ricchi quartieri residenziali dotati di sorveglianza privata, ospitarne alcuni nelle loro case, dimostrando non solo con urla e slogan ad effetto, la loro accondiscendenza, la loro forza di integrarli all’interno di strutture sociali che possono veramente elevarli, eliminando così i disagi dalle periferie, e dai campi adiacenti alle zone industriali.
In realtà non si tratta di discriminare un’etnia, che per ragioni politiche, storiche, di guerra, sociali e culturali ha deciso di vivere secondo le loro usanze, ma si deve far capire e comprendere che queste usanze devono essere un modus vivendi conforme alle leggi sanitarie e sociali, del codice civile e penale e della costituzione Italiana, e che in nome del rispetto che si deve avere nei confronti di quest’etnia, non si deve abdicare all’illegalità, alla pratica diffusa d’utilizzare bambini per impietosire, per chiedere l’elemosina, per la manovalanza nella microcriminalità, ma rimanere saldi nei principi di convivenza, di rispetto reciproco, che al pari degli zingari si devono ai cittadini italiani.
Alcuni affermano che si dovrebbe insegnare la cultura zingara nella scuola italiana. Questo non porta alla soluzione del problema, anzi, rischierebbe d’aumentarlo con l’emulazione, con la voglia di vivere fuori delle regole, si dovrebbe invece insegnare cultura italiana, non perché sia necessariamente la migliore, ma perché rappresenta la maggioranza dei cittadini, perché nonostante le difficoltà essa è l’unica strada che favorisce l’integrazione non intesa come assimilazione ma come crescita per questa etnia, che ha il diritto di mantenere le proprie radici storiche, culturali e sociali, ma devono essere inglobate all’interno dei canoni di civiltà, convivenza e rispetto reciproco, senza favoritismi di sorta che andrebbero a ledere i medesimi diritti degli italiani, che al pari degli zingari, vivono in identiche situazioni di difficoltà e degrado sociale.

Marco Bazzato
09.01.2007
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lunedì 8 gennaio 2007

Il tricolore simbolo desueto?

Il tricolore compie 210 anni, ma la bandiera rappresenta ancora l’Italia e gli Italiani? La domanda eretica sorge spontanea vista la relativa giovane età dell’unificazione del paese, rispetto ad altri Stati europei ed extraeuropei, anche perché è evidente che l’attaccamento degli italiani ai patri colori, avviene da tempo, solo in occasioni di vittorie sportive.
Questo disamore ha radici antiche e politicamente recenti, infatti per anni la sinistra italiana, che seppur ha contribuito in modo sostanziale all’edificazione della Repubblica, ha sempre attaccato i valori di patria, provenienti dal centro destra,e specialmente da destra, condizionando i pensieri dei cittadini, che l’attaccamento al valore simbolico della bandiera, rievochi tristi eventi legati al ventennio fascista.
L’italiano, spinto a malavoglia ad abbracciare un europeismo sempre più accelerato, nei fatti ha prodotto come diretta conseguenza un disamore, che forse a parte un numero esiguo di veri patrioti, nei confronti della bandiera. D’altronde in un epoca come quella attuale, dove l’Unione Europea detta le sue regole, le sue leggi, i suoi valori, che spesso sono disvalori, ancorati sotto la volta di un capitalismo senza regole e confini, si capiscono anche le motivazioni della disaffezione al simbolo nazionale per eccellenza, dove non va dimenticato, che l’Italia dei Comuni, delle piccole e grandi signorie, delle divisioni dialettali che nonostante siano una ricchezza locale, portano necessariamente a divisioni ed incomprensioni sul suolo patrio non sono svanite. Basti pensare alle spinte Federaliste della Lega, che non fa altro che rivendicare un diritto, giusto o sbagliato che sia, di autodeterminazione dei popoli, lo stesso spirito che in passato hanno smosso i padri della patria nei confronti dell’invasore straniero.
Ma il disamore nei confronti del simbolo nazionale, è presente nell’italiano, non per mancanza di legami con la sua terra, con le tradizioni, la cultura millenari, ma per lo scollamento che le Istituzioni Nazionali, hanno nei confronti dei cittadini. Il disamore si alimenta, quando cresce il malcontento sociale, quando si vede un iniqua distribuzione della ricchezza, quando il parassitismo di stato, le regalie, i piccoli e grandi feudi personali e politici, commettono come nel medioevo gli stessi soprusi, le stesse angherie, le medesime baronie, che tendono ad asservire il popolo, le fasce meno prive di protezioni sociali, ad una nuova forma di servitù della gleba.
Una servitù materiale, ancorata agli indici di borsa, alle speculazioni, una servitù fondata sul debito senza fine, sull’annichilimento del concetto di risparmio, edificata sulla necessità di sacrifici di molti, e sugli sprechi incommensurabili di pochi.
Si vorrebbe una nazione legata ai valori patrii, ma questi sono valori annebbiati dal malaffare, dalla sopraffazione, dalla legge della giungla del più forte.
Molte cose giungeranno al capolinea, e sarà un capolinea funesto. Non si può credere in eterno che “pane e circensi” possa accontentare tutti per sempre. Ci sono troppe Maria Antonietta che nell’opulenza pensano dentro di se: “Il popolo non ha pane? Che mangi brioches!” e la storia che si è compiuta anche in questi giorni, ha dimostrato che nessuno dura per sempre, né le bandiere, né tanto meno gli uomini, tranne che in Italia, dove l’immortalità politica ha toccato vette Brezneviane, vette da Soviet Supremo, ma anche i Soviet, come gli Zar, furono spazzati via dalla storia e sostituiti da nuove bandiere.

Marco Bazzato
08.01.2007
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sabato 6 gennaio 2007

Dov’è Dio?

Sovente viene da chiedersi se Dio esiste, se Dio c’è. “Egli è l’essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra”, recitava uno degli articoli della professione di fede del catechismo degli anni settanta. Poi si cresce, si perde la fede, la speranza, e la carità diventa quella fatta al barbone che chiede l’elemosina a lato della strada, e trattenendo un moto di rabbia, di dolore, di sofferenza per creature umane lasciate o abbandonate al loro destino dalla famiglia, dalla società, da una cultura che ha perso ogni valore, che ha perso di vista il senso stesso della parola umanità, del senso dell’amore, inteso come forma d’elevazione spirituale più pura verso l’altro, verso la parte più chiaramente oscura e sconosciuta anche di se stessi.
Dov’è Dio in questa società dove i media mostrano solo marciume, sangue, le inefficienze politiche, furti, ladrocini, assassini impuniti, che sogghignati lasciano le patrie galere nonostante abbiamo sulle spalle indicibili scie di sangue e morte.
Dov’è Dio, perché non risponde all’uomo, ai suoi bisogni primari, non solo spirituali, ma anche materiali, perché quest’essenza che permea ogni angolo del creato, nel nome del libero arbitrio del singolo, lascia che tutto si compia, che tutto, attraverso il sangue, il sacrificio, la morte, non solo fisica, ma anche spirituale dell’uomo stesso, diventando motivo salvifico, non in questa vita, ma nell’altra vita.
L’uomo ha bisogno oggi della salvezza, ha necessità ora non solo della preghiera, ma anche di sentire che non è solo, che non è abbandonato ai pesi delle tragedie quotidiane, che non è un essere che vive ai margini del mondo stesso, ma che anche nella povertà, c’è qualcuno che provvede a lui, ai suoi bisogni, sostiene la sua sofferenza, l’agonia sul letto di morte, sulle corsie degli ospedali, negli ospizi.
Questo Dio presente in ogni angolo tace. Tace a volte d’un silenzio forse colpevole, forse protettivo, tace affinché la ricerca dell’uomo, nella sua interiorità lo porti a sentirlo in modo diverso, in modo meno declamato da somme autorità, ma più vivo in ognuno.
In questa società frenetica, questo silenzio assordante, schiacciato dal frastuono quotidiano, scava nella roccia, scava nei pensieri, nelle azioni frenetiche, nelle tensioni a cui l’uomo è sottoposto. Dio forse vede, ma tace, forse vorrebbe intervenire nelle vicende umane, ma l’uomo stesso impossibilitato dal proprio ego, dal proprio interesse venale, dall’istino di sopravvivenza relativo dall’allontanarlo. Ma quel Dio sebbene così distante, sebbene così assente, non lascia sole le creature, quegli esseri perfetti, che viventi nelle quotidiane imperfezioni, vorrebbero elevarsi sopra la soglia di una materialità distruttiva e decadente, quelle creature, che nonostante gli affanni d’ogni giorno, cercano un motivo che va oltre la vita stessa, oltre la banalità del giorno che lascia il posto alla notte, per continuare un esistenza costellata da drammi ed affanni, un esistenza dove il dolore, la malattia è una piaga che suppura pus nauseabondo, una piaga infetta, che porterebbe a maledire il creato stesso, se non si sentisse che oltre l’apparenza della vita finita, esiste un’altra vita, ma quell’altra vita non è sufficiente, nonostante quanto possa essere granitica una fede, la certezza che le promesse siano adempiute.
Dov’è Dio oggi? Forse cammina nelle corsie degli ospedali, assiste gli infermi, i moribondi, assiste coloro, che esalano l’ultimo respiro per abbandonarsi con fede, con paura, e speranza alla nuova vita. Dio non è nel cuore del ricco, non è nel cuore del potente circondato da una corte osannante e prostrata a lui come una divinità pagana, con un gesto della mano ordina distruzione e morte. Dio non è nelle lotte politiche, in chi sbandiera la propria fede, il proprio credo, la propria religione come una clava, un arma impropria per ribadire una superiorità inesistente, una superiorità che deve far servi e schiavi coloro che vivono nei loro cuori la stessa fede, pregando in libri diversi, ma amando l’uomo e il creatore nello stesso modo.
Dio tace, osserva, ascolta, s’indigna, sente le urla, i giochi, il malaffare di chi all’ombra del suo tempio, dentro il tempio dell’uomo stesso, continua a covare l’arte dell’inganno, della menzogna, l’arte di distruggere, nel nome d’un altro. L’arte del mentire sia di chi crede, sia di chi non crede in nome dell’entità in nome dell’Essere Supremo, non disponendo nemmeno della vita propria, consegnatali come dono d’amore, generata come violenza, rubata come un frutto caduto dall’albero, vogliono essere proprietari delle vite altrui desiderano secondo i loro sogni,i bisogni, le fantasie malate e perverse proporre, ordinare e disporre ci ciò che non gli potrà mai appartenere: la libertà interiore d’amare, di essere, di volgere i propri pensieri, lodi, pianti ed i sacrifici a quel Dio salvifico, forse creatura vivente nell’essenza dell’uomo, forse creatore presente non creato nel creato, che guida e illumina, che nel silenzio riesce a dare quelle risposte, quel senso supremo alla vita stessa, quando essa, accecati dalla miseria dello sguardo finito e umano, sentiamo che vive e vegeta forse in un inutilità senza senso.
Dov’è Dio?
Tanti hanno la risposta, vera o fallace, inventata oppure toccata con mano nella trascendenza d’un amore che va oltre le vesta mortali,ed entrando partendo dal cuore, arriva direttamente in quel mistero, che a parole umane nessuno sa spiegare e che si chiama Fede.

Marco Bazzato
06.01.2007
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Ammazziamo con gioia

Che bello sentire il sangue altrui scorrere tra le dita,sentire urla di supplica e paura che lacerano i timpani. Non c’è aroma più sadicamente esaltante dell’altrui sofferenza, dell’altrui dolore, che come un farmaco mortale lenisce gli affanni.
Si vive inconsciamente per quell’aroma, per quel nettare delicato delle paure altrui che s’insinuano sotto la pelle, e muovono accecati d’odio e rabbia per distruggere quanti ci circondano.
Essere ipocriti non serve a nulla, se non ad elevare al rango di verità la bugia. Si gode con istinto malsano, quando si vedono corpi morenti dibattersi sulla forca. Si hanno orgasmi sadici nel vedere la disgrazia che accade ad altri, e non a noi, facendoci sentire forti, liberi, fortunati, sfacciatamente gioiosi e giocondi per quei corpi bruciati o fatti i mille minuscoli pezzi, strappati alla vita dal bisogno mortale di vendicarsi, di rubare, distruggere, depredare, rendere proprio quello che non gli appartiene. L’assurdo è che si usa ogni genere di scusa legale, etica, umana e sociale per perpetrare l’insito bisogno costante di godere delle sofferenze altrui, nel vedere quei bimbi con i ventri ricolmi di fame, gli arti scheletrici che non conoscono il sapore d’una costata, l’aroma dolce d’una bibita gassata, ma costretti come cani randagi, come animali braccati a rovistare nell’immondizia, a vivere nella sporcizia, a bere in fiumi e laghi avvelenati dai nostri liquami industriali, riversati in casa altrui, per non sporcare il nostro piccolo giardino. L’uomo è una massa ipocrita e bastarda, che salva una vita sotto la luce dei riflettori dei media e ne ammazza a migliaia nell’oscurità, distante da sguardi altrui. Li macella come bestie pronte al sacrificio rituale, balla, cospargendosi il capo di oli profumati innanzi alle ceneri, ai resti ancora caldi di quelle che per lui non erano persone, ma animali inferiori da abbattere e depredare.
Dicono, che esiste l’amore. Quale fantastica illusione, che fiaba per bambini idioti, per adulti ritardati che credono ancora nelle favole a lieto fine,e non vogliono vedere il mondo popolato da orchi e draghi famelici che riducono in polvere come le sette piaghe d’Egitto quanto incontrano nel loro cammino.
La storia, questa puttana bastarda, non insegna nulla all’uomo, non insegna a migliorarsi, anzi fornisce scuse e alibi per scendere sempre più in profondità verso l’abisso, per ricreare, credendo di portare nuove verità, nuove forme di sadismo e morte.
La nostra società, nell’opulenza falsa e virogena, si avvia, avvolta in un sacco mortuario, guidato dall’un becchino impazzito, verso il cimitero finale, verso quell’arcana e archetipa tomba, dove riverserà come in un infinito coniato di vomito, tutta se stessa. La via, la strada costellata di cipressi secchi ai lati è spiantata, è lunga, diritta, senza nessuna curva, priva di dossi, e angoli ciechi, ci attende al varco davanti alle lapidi divelte, alle tombe violate, con i resti di chi ci ha preceduto.
Il sacco mortale, il virus maligno, è presente in ognuno in forme apparentemente diverse, ma per tutti eguali: il bisogno di schiacciare, demolire, distruggere, sradicare le vestigia del passato, annichilire con pensieri contorti chi ci h preceduto, vedendo appesi ai rami degli alberi quanti ci superano in furbizia, malizia, e potenza. Godiamo come belve affamate, come animali pervasi dal calore dell’accoppiamento quando i potenti cadono dai troni, quando ubriachi delle malvagità che vorremmo compiere, ma gli eventi contrari l’hanno impedito, decadono nei liquami della pubblica gogna, quando invecchiati e stanchi del sangue sparso, e delle cataste fumanti di cadaveri lasciate marcire lungo le vie, vengono presi ed incatenati, processati come servi di un dio maligno, come signori, prima osannati e adorati, ed ora odiati dal profondo delle viscere.
La feccia ci avvolge, ci sommerge, rendendo l’aria stessa che respiriamo colma degli orrori che ci accerchiano,e noi, fermi, immobili, come vittime sacrificali pronte al patibolo, siamo nudi innanzi a quanto non possiamo fermare, arrestare, rendere inerte.
L’uomo comune, il disgraziato, colui, che deve cercare di sopravvivere nelle insidie quotidiane, non è nulla innanzi a quanti, sulle teste delle masse, conducono i giochi, traffici, loschi affari di Stato, incuranti delle sofferenze, delle difficoltà, delle necessità d’avere una vita decorosa. Questi signori, al pari di boia mascherati, nulla importa del destino dei sottoposti, nulla importa delle sofferenze delle nazioni a cui scelleratamente sono stati chiamati a governare. Questi signori, questi parassiti sociali, vivono scortati protetti, viaggiano in auto blindate, in corsie e spazi aerei preferenziali come piccoli dittatori sanguinari, piccoli Soviet che ebbri della loro mediatica importanza, guardano al volgo come a bestie rantolanti, bestie affamate che nulla vogliono se non decoro e civiltà.
Questa civiltà che non è mai esistita dall’inizio del tempo, dall’inizio della storia, questa civiltà da sempre è fondata sul sangue, sull’annichilimento, distruzione e ricostruzione, per poi distruggere nuovamente, illudendo il mondo e l’uomo idiota che essa è il nuovo che avanza, la nuova società, il nuovo uomo, non importa se ariano, europeo, sovietico o americano. È sempre un nuovo uomo fondato su cataste di cadaveri, su mucchi d’ossa, su ventri affamati e morenti, che nulla chiedono, nulla vogliono se non una libertà e pace che mai verrà.

Marco Bazzato
06.01.2007
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